Articolo 18: prevedibile compromesso

L’articolo 18, ormai diventato il più noto articolo di legge del nostro ordinamento, è in fase di discussione finale tra governo e sindacati e, più in particolare, tra due “prime donne “: la Fornero e la Camusso. È una battaglia tra bandiere più che tra obiettive valutazioni, anche se pure queste non mancano. Le ragioni che avevano motivato questa legge erano certamente legate alla congiuntura storica e sociale, alla necessità, appunto, di uno statuto dei lavoratori, inteso come strumento di difesa e tutela degli stessi.
Il ministro del lavoro del tempo, il socialista Giacomo Brodolini che faceva parte del secondo governo Rumor (1968 -l 1969) avviò l’itinerario della legge 300, definita “statuto dei lavoratori” e promulgata il 20 maggio 1970. Più di quarant’anni fa. Il titolo della legge recita “Norme per la tutela della libertà e della dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e della attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento ” L’esigenza di questa legge era ormai viva da tempo perché seguiva la grande ricostruzione del primo dopoguerra, l’immenso sviluppo economico e delle condizioni dello stesso, nonché quello dei sindacati e le relative forti resistenze della Confindustria ad una politica industriale più consona alle esigenze dei tempi nuovi e dei lavoratori.
Gli anni precedenti erano stati caratterizzati dall’autunno caldo, dalle lotte di piazza e di fabbrica, da una tensione sociale che rendeva difficile la vita civile e politica del Paese. Lo scontro tra imprenditori e lavoratori stava diventando insostenibile e bisognava rispondere con una legge che riconoscesse e desse maggiore spazio e soddisfazione alle organizzazioni sindacali allora fortemente unite anche se concorrenziali nella famosa “triplice”. Lo statuto fortemente voluto dal governo Rumor e particolarmente da Giacomo Brodolini e dal PSI, fu studiato da una commissione presieduta dal giuslavorista  prof. Gino Giugni che la portò a termine anche dopo la morte del ministro, sulle sue direttive, avvenuta un anno dopo. Brodolini aveva fatto molto per il mondo del lavoro, eliminando le discriminazioni delle gabbie salariali e ristrutturando in modo forte il sistema previdenziale. Lo statuto fu realizzato dunque a tutela dei lavoratori e fu tra i più liberali in Europa.
Dopo anni di forte e talvolta cattiva gestione dei rapporti sindacali, la nuova normativa, già al primo articolo tutela la libertà di opinione ed il divieto di trattamento differenziato, nell’assunzione e nella azienda,per ragioni politiche,sindacali, religiose e di qualunque altro tipo. Tutta l’impostazione della legge è ispirata a tale volontà.
Anche l’articolo 18 che però è stato reso “ostico” per l’atteggiamento di sindacati e magistratura del lavoro, i primi eccessivamente portati alla protezione del lavoratore anche in casi di comportamenti obiettivamente gravi e censurabili, i secondi per un permanente atteggiamento giurisprudenziale di “condanna preventiva” del datore di lavoro sia esso una grande azienda o una struttura economica minore. La situazione è giunta a livelli che potrebbero motivare la domanda, paradossale, se sia meglio eliminare l’articolo 18 o la natura e la struttura della magistratura del lavoro.
La magistratura del lavoro nacque con la “Carta del lavoro”, istituita dal governo di Benito Mussolini nel 1927, come strumento dello Stato corporativo previsto nello stesso atto, all’articolo due dove dice “il lavoro sotto tutte le sue forme intellettuali tecniche e manuali è un dovere sociale… i suoi obiettivi sono unitari e si riassumono negli interessi dei produttori e nello sviluppo della potenza nazionale.” All’articolo cinque “La magistratura del lavoro è l’organo con cui lo Stato interviene a regolare le controversie del lavoro…” e all’articolo sei “Le corporazioni costituiscono l’organizzazione unitaria della produzione e ne rappresentano integralmente gli interessi… Le corporazioni possono dettare norme obbligatorie sulla disciplina dei rapporti di lavoro…” Non sembra, con le dovute eccezioni, che la magistratura del lavoro dello Stato fascista, forse particolarmente dalla parte dei lavoratori.
Per converso la magistratura “democratica” ha, seguito le linee politiche prevalenti della “ragione sempre ai dipendenti”, creando un clima di inutilità al suo stesso ricorso da parte delle imprese e facendo prevalere l’opinione, spesso esagerata, della “assunzione più impegnativa di un matrimonio”.
Ora siamo alla battaglia finale che non può finire con un’epica vittoria ma con un compromesso, una mediazione: la reintegrazione nel porto di lavoro sarà probabilmente più finalizzata e ridotta, il risarcimento finanziario più importante, le ragioni economiche dell’azienda vero motivo sostanziale per il licenziamento. L’articolo 18 rimane in equilibrio instabile tra l’esigenza di immagine vincente dei sindacati, quella normativa del governo e, perché no? quella dei magistrati del lavoro, speriamo, un po’ meno padroni di questo difficile rapporto.

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3 Responses to "Articolo 18: prevedibile compromesso"

  • Consolati says:
  • Gianni Porzi says:
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