Il terremoto è di tutti

La nostra famiglia è stata sconvolta da una disgrazia inevitabile. Non è la prima volta che ciò avviene ma sappiamo però che le difficoltà, se non sono tali da distruggere tutto, rafforzano la solidarietà, il senso della comunità stessa, fanno sì che ci si senta parte di un unico corpo.
Il terremoto in Emilia, come tutti i precedenti in altre parti d’Italia, ci ha ferito profondamente, ma sta già ora dimostrando la capacità del nostro popolo di reagire: la parte pubblica con l’efficiente azione delle sue strutture, quella privata con il dignitoso e attivo comportamento dei cittadini colpiti dalla tragedia. Nella specificità di ogni area, di ogni dialetto, l’ogni abitudine, di ogni storia, di fronte al pericolo e al dolore, emergono l’anima comune e la volontà di resistere che è di tutti, colpiti o no dal terribile evento.
Le chiese, le torri, i palazzi, abbattuti o rovinati dal sisma sono di ognuno di noi, fanno parte della nostra comune cultura, come le aziende crollate fanno parte della comune economia e gli interventi generosi, anche nel pericolo, appartengono alla nostra comune solidarietà.
Questi eventi ci ricordano che lo Stato non è confinato negli spesso boriosi palazzi romani, ma è nelle nostre case, nelle nostre convinzioni, nei nostri comportamenti. Come il passato è di tutti e ognuno di noi, così lo è anche il futuro. A esso dobbiamo pensare, consapevoli della nostra debolezza di fronte all’immane forza della natura, ma anche della nostra capacità di reazione, di cautela, di prevenzione, se non dagli eventi almeno delle loro conseguenze. Possiamo tutelarci, in tutto il Paese e non solo in alcune sue parti, con il rispetto delle regole e con norme generali, valide per tutti, anche dove sembrano inutili. Con la legalità che a tutti impone comportamenti virtuosi, in un Paese da tutelare da ogni tipo di terremoto, da quello che viene dalle profondità della terra a quelli provocati dagli uomini stessi, con i loro egoismi, le loro cattive inclinazioni.
La prima lezione che arriva chiaramente da questo ennesimo drammatico evento riguarda la nostra debolezza, l’impotenza, la vanità del nostro essere. La seconda è che l’unico rimedio è la solidarietà, l’unità, la consapevolezza della comune responsabilità, la forza della comune volontà di affrontare, tutti uniti, gli eventi. Di qualunque natura essi siano.
Abituarci a combattere le forze a noi esterne con la forza che è dentro di noi. Ed è molta.

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Il popolo ha parlato: e poi?

Dopo tanti commenti, molti assai seri e motivati, e tante dichiarazioni, nessuno sembra aver veramente perso, e pertanto vale la pena una riflessione.
Qualcuno ha affermato che sono state le ultime elezioni della seconda Repubblica. Non è vero, le ultime saranno le politiche, anche se -come avviene in ogni storia- già, vediamo con quali grandi difficoltà nascerà la futura terza Repubblica.
Chi ha vinto? Chi ha perso? C’è stata una Stalingrado? Ci sarà la presa di Berlino?
Le immaginifiche visioni di Grillo, ovviamente, sono funzionali ai suoi obiettivi, al suo modo di essere nel difficile ruolo di un comico che affronta una tragedia.
Nel terremoto economico internazionale, che sembra non interessarlo, la tragedia italiana pare meno drammatica, solo perché sopravanzata da quella greca, ben più grave e densa di conseguenze immediate.
Nessuno può sottovalutare la gravità della nostra crisi, anche perché si tratta di una mala gestio dello Stato che viene da lontano, che ha le radici profonde, nel carattere, nella cultura, nella storia, nel modo di essere degli italiani. Senza andare ai Machiavelli e Guicciardini, basta rileggere il leopardiano “Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani”.
Questo status della nostra Italia non può obiettivamente essere affrontato con le battute di un comico, anche se esse ci dicono, in modo eccessivo ma assai chiaro le cose che non vanno, i limiti della nostra classe dirigente, gli scandali che una cattiva politica in una malata democrazia inevitabilmente produce.
La riflessione post elettorale va dunque rivolta al futuro, all’avvenire di un Paese che sembra risvegliato da un lungo sonno denso di sogni piacevoli, divertenti e sereni, indotti da un potere forse inconsapevole dei propri doveri. Va ricordato però che la classe dirigente di un Paese è sempre la proiezione di vizi e virtù, di speranze e delusioni, di benessere e malessere, della “cultura” del popolo elettore.
In democrazia, almeno quella formale, che si esprime in libere elezioni, è pur sempre il popolo che dichiara le sue volontà, esprime le rappresentanze, che può essere vittima di abbagli e seduzioni, d’illusioni e di fede in false promesse, ma è pur sempre il popolo che ci crede e non può non riconoscere le proprie colpe. E’ il popolo che preferisce il singolo interesse, (il particulare di Machiavelli), quello della categoria, della corporazione, del clan a quello generale, che chiede comportamenti virtuosi a tutti e nell’interesse di tutti.
Non mi stanco di ripetere che le dittature sono sempre nate sull’onda della protesta dei cittadini, spinta da problemi veri ma spinta dalla demagogia e, assai spesso, con i loro stessi voti.
Il futuro del Paese, dopo l’espressione elettorale alle recenti amministrative, è analizzabile in modo chiaro: la sinistra ha tenuto, la destra è crollata, il centro non attacca e il bipolarismo c’è ancora, ma solo come espressione di un senso di alternativa, la protesta di Grillo ha avuto un grande successo, anche perché, a livello locale, si è espressa con volti degni di attenzione e rispetto, che superano gli eccessi del leader comunicatore che avremmo voluto vedere in gara, personalmente, a Genova.
Ma il cinquanta per cento di gente che non sa come o non vuole votare, ci da la misura della gravità della situazione.
Il Paese dove sta andando? Gli elettori di centro destra, quelli che fanno fatica a votare a sinistra in questa situazione, dove trovano spazi di aggregazione? Le forze politiche hanno tutte perso credibilità e la gente esige un grande rinnovamento.
Se è vero che la dirigenza del Paese (non solo quella politica) è la più vecchia d’Europa, è anche vero che di forze giovani, con capacità politica e di governo, se ne vedono assai poche, per non dire alcuna.
Immaginiamo di mandare a casa la leadership politica del Paese: la sensazione è gradevole, via tutti quelli carichi di legislature, con lunghe carriere alle spalle, con scarsi risultati e scarso impegno, Oltre i totem del centrodestra, ormai tutti settantenni e anche più, (Cicchitto, ad esempio ha settantadue anni), non possiamo certo tenerci i La Russa, i Bondi, i Verdini, i Brancher, gli Scajola e via citando.
Che cosa possiamo salvare della dirigenza politica giovane, anche giovanissima, immessa per meriti non propriamente politici in questi venti anni che ci separano da Tangentopoli e dalla fine della prima Repubblica? I nomi di molte giovinotte intraprendenti sono molti, quelli di giovani bisognosi di non pochi apporti di cultura politica altrettanti. Dopo la prima finita con Tangentopoli, la seconda repubblica è deceduta per analoghi vizi e l’incapacità di esprimere una politica che non fosse di personalistica contrapposizione e, ad onta delle affermazione di tutti, di mantenimento dello status quo, di privilegi, ingiustizie rese diritti, non rispetto della legge e nicchie di potere e di abuso delle risorse dello Stato.
Non sappiamo se per fortuna o per disgrazia, non ci ha lasciato una classe dirigente per il futuro, e neanche per l’attualità, visto che si è dovuto ricorrere ad un Governo dichiaratamente non politico, posto che si possa dire che un Governo sia non politico.
Si è proclamata la fine delle ideologie realizzando anche la fine di idee e ideali, anche i più normali come la legalità, l’onestà personale, il senso dello Stato, la funzione della politica come fatto anche morale di solidarietà e responsabilità.
Le prossime elezioni non serviranno a gestire Parma o Palermo, ma per salvare il Paese da una china assai pericolosa di cui forse non ci si rende conto.
L’ottimismo Tremontiano e Berlusconiano non ha più spazi nel convincimento della gente. Ma non dobbiamo cedere però al pessimismo, che ci danneggia nello stesso modo. Occorre un realismo, carico di ideali, una classe dirigente degna di questo nome, formata e non inventata, legata a popolo e territorio e in grado di guidarlo e non solo di seguirlo. La democrazia è il bene più prezioso che abbiamo ma va trattata con grande rispetto e senso di responsabilità.
Bisogna inventare un nuovo futuro, possibile e realistico, bisogna basarlo sull’impegno di ognuno, non sull’astensione. Troppa gente pensa che basta occuparsi degli affari propri e non “perdere tempo con la politica”. Stiamo vedendo con chiarezza che se non ci occupiamo, e seriamente, di politica, sarà la politica ad occuparsi di noi.

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Il pungitopo

Dire di si

Ancora una volta l’on. Bondi si è dimesso da coordinatore dal Pdl, forse per stimolare -ma invano- le dimissioni degli altri due, La Russa e Verdini.
Il presidente Berlusconi, dopo aver dichiarato che voleva azzerare le cariche di partito in vista di promesse novità di importanza epocale, le ha rifiutate e, come altre volte, Bondi ha rinunciato a dimettersi.
Tutto si può dire di lui tranne che non sia un fedele scudiero, sempre pronto a obbedire. Francamente fa anche un po’ male vederlo trattato in questo modo deve essere duro sentirsi sempre dire di no, per chi è abituato sempre a dire di sì.

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Caron dimonio

Crozza direbbe: ritorna l’Italia dei carini. Per abbellire il Popolo delle libertà non bastano le belle fanciulle diventate parlamentari e ministri, naturalmente al solo scopo di ringiovanire la politica. La D’Addario non ce la fece solo perché è un po’ più avanti negli anni rispetto alle preferite. Berlusconi, infatti, si è incontrato con Luca Cordero di Montezemolo e pare lo abbia invitato ad una fusione della sua fondazione “Italia futura” nel PDL e alla candidatura alla Presidenza del Consiglio. Forse aveva dimenticato le sue stesse affermazioni a proposito di Alfano, quando lo indicava e candidava come futuro Presidente. Strano, era la stessa carica! Nella monarchia berlusconiana la designazione del successore fa parte del rituale “costituzionale”: il segretario politico, su proposta reale, viene unanimemente e fragorosamente applaudito, certamente un bagno e una scelta democratica che toccherà anche ad altri designati. Ma ora la situazione è diversa. Montezemolo, infatti, non è, come Alfano, una creatura costruita dal Sovrano, anzi quando lo voleva fare ministro, dopo adeguata riflessione, rifiutò.
Infatti, il bel Luca, una volta, è uno che riflette molto e decide sempre quando è sicuro dell’esito, come molti grandi industriali che fanno le aziende quando sono sicuri, ma proprio sicuri, dei contributi dello Stato e Montezemolo, uomo Fiat, ne sa certamente qualcosa. Sicché la sua “discesa in campo” è ormai una lunga profetizzata attesa, anche per lui stesso. I soldi per fare una bella Fondazione al suo gruppo non mancano, e quella serve per far pensare senza dire troppo, lasciando credere, come ha detto Piepoli alla Sette, che sia una poderosa macchina da guerra, e neppure gioiosa come quella di Occhetto. Certo per lui sarebbe un bel colpo: avremmo subito le ferrovie private, certo utili ai viaggiatori ma soprattutto a lui stesso. Un po’ come le frequenze televisive di un tempo ed altro ancora.
Berlusconi non può che vederlo bene: analoghi conflitti d’interesse, analoghe ricchezze, un sacco di presidenze tutte di lusso, dalla Fiera di Bologna alla Fiat, dalla Nuovo Trasporto Viaggiatori alla Ferrari, dalla Maserati alla Frau, alla Confindustria e altre ancora. Analoghe anche, ci par di capire, le visioni politiche, gli interessi da tutelare e quelli da dichiarare, come certo una immensa sensibilità sociale. Sensibilità! Montezemolo non è uno stupido, tutt’altro; sa bene che quello che Berlusconi gli propone è una mela avvelenata, ormai avvizzita e rimpicciolita, bisognosa di cure e trapianti, non più in grado di alimentare i grandi mangiatori che la rappresentano (non tutti naturalmente) e che peraltro sono pronti a cambiare tipo di frutta. Montezemolo sa però anche che i voti vanno ottenuti con il consenso elettorale, sul territorio grande e diversificato del nostro difficile Paese, e che per il 50% la gente rifiuta di votare e per il 10% vota in spirito di protesta, ma senza uno specifico progetto. Nella crisi generale, anche raccogliendo qualcosa, saranno frazioni del centro destra, già scoppiato al punto che la sua gente non vota o, come a Parma, vota i Grillini che peraltro appaiono essere persone perbene e stimabili dalla gente. L’ipotesi Montezemolo ha pure il difetto di essere vecchia, come tutta la politica italiana. Manca un requisito fondamentale quanto assai raro: la credibilità, che difetta a molta parte della classe dirigente, in maggior misura, nel centrodestra anche perché ha governato fino a ieri e, pur se non tutti per sua colpa, con i risultati che tocchiamo con mano. Tale area sembra ancora non avere capito la situazione, basta vedere gli atteggiamenti parlamentari sulla legge anticorruzione, sul falso in bilancio, sul finanziamento pubblico dei partiti, sulla legge elettorale e via dicendo. In sostanza su tutti i temi più significativi del momento. “Quos Deus vult perdere dementat”. Montezemolo sa bene che Berlusconi non è più il re Mida di un tempo, ma rischia di diventare un “Caron dimonio” dantesco che traghetta le anime all’inferno. Francamente è brutto vederlo in quella veste, che però si è cercata assieme alla sua corte. Per questo il centro-destra è inquieto, incerto, preoccupato.
Gli elettori sembrano dire “cercasi nuova leadership e classe dirigente”. Per trovarla non bastano nemmeno i miliardi.

Tra malessere e rivolta

Non è la prima volta, in tempo di pace, che l’Italia vive il malessere: per l’economia, la crisi petrolifera, la sicurezza sociale, il terrorismo ed altro ancora. Ha sempre saputo superare però i momenti difficili anche se con notevoli sforzi e significativi ritardi. Anche in passato i fenomeni italiani si inserivano nel contesto internazionale e particolarmente in quello europeo. Ma, pur nella cooperazione, ogni Paese affrontava i problemi con le proprie forze, con le risorse disponibili ed anche con i propri limiti. La Germania affrontò e risolse quasi definitivamente il problema delle proprie “brigate rosse” (la rote armee fraktion) in modo e tempi ben più veloci dei nostri. Noi andammo avanti anni in indagini, inchieste, in processi inconclusi e con soluzioni mai totalmente raggiunte. Basti pensare alle stragi: da piazza Fontana all’Italicus, a Brescia. Ma è la nostra Italia.
Ora affrontiamo un’altra stagione di forte malessere, la crisi economica è gravissima, quella sociale incombente. Il dramma della vicina Grecia ci spaventa sia per le conseguenze sia per il modo usato per affrontarla. Anche stavolta i tempi sono fondamentali ma non abbiamo la capacità di affrontarli. Dopo un primo momento di decisione, per l’esistenza della brinkmanship. L’orlo dell’abisso) sembra che le idee non siano più chiare e soprattutto gli interessi elettorali e politici, prevalentemente partitici, prevalgano su quelle del buon governo. Così “dum Romae consulitur Saguntum expugnatur” (mentre a Roma si discute Sagunto viene espugnato). Non si può discutere all’infinito soprattutto quando si tratta di arginare la spesa dello Stato, che è anche spesa di regioni, province che si dovrebbero abolire, di comuni, società pubbliche, enti di varia natura che rappresentano un flusso continuo di risorse.
Se non si interviene velocemente e con competente coraggio si rischia la trasformazione del malessere in rivolta, senza reali possibilità di risoluzione del problema, data la sua dimensione globale, i vincoli dei trattati, la tentacolare speculazione internazionale, il debito gigantesco di tutti o quasi i paesi coinvolti che, per decenni, hanno speso senza limiti e sono vissuti sul debito, prima con i propri cittadini ed era il male minore e poi con la finanza internazionale di cui siamo diventati schiavi. La situazione però può essere affrontata solo con forti tagli a sprechi e privilegi e con una politica sociale altrettanto forte a tutela dei più deboli e di crescita con interventi economici e normativi di forte stimolo.
Ed anche con una decisa politica di controllo del sistema bancario, divenuto più che mai una palla al piede nei riguardi dell’economia reale. Le banche hanno un ruolo pubblico, altro che società private! Devono essere regolate con una disciplina ferrea, bisogna impedire gli investimenti finanziari che consentono operazioni miliardarie anche private ed anche dei propri dirigenti e, per i banchieri che depauperano la gente del proprio stesso denaro, un trattamento da 41 bis, come per i mafiosi. Sembrano esagerazioni ma non lo sono e basteranno pochi esempi per far mutare il clima.
Il mondo della finanza sta alterando la democrazia in molti Paesi, con il suo potere incontrastato, tollerato, talvolta condiviso. Quando la Francia di Luigi XVI visse il dramma della miseria, della violazione dei diritti, del prevalere dei soprusi mandò alla ghigliottina ricchi, nobili, preti e potenti. Certo non fu un esempio di giustizia assoluta ma si contrapponeva ad altrettanta arroganza del potere.
Il malessere è più diffuso di quanto non sembri.: ne ho avuto prova parlando con cari amici, sostanzialmente moderati, comprensivi delle esigenze dello stato del paese, ragionevoli ed attenti. Scoprivo in loro la presenza del malessere, atteggiamenti di legittima rivolta, urgente pretesa di uno Stato attivo e critiche per una politica inesistente, quasi inconsapevole del proprio stesso futuro.
Il malessere è prodromico della rivolta e questa non la fanno i moderati solo perché gli stessi si trasformano in potenziali disperati, il che significa senza speranza. La trasformazione del malessere in difficoltà e della difficoltà in non speranza ed in rivolta, è un processo pressoché ingovernabile, sotterraneo, capace di esplodere sotto qualunque sollecitazione anche eccessiva e apparentemente ragionevole. I politici sembrano tutti dei pesci rossi dentro l’acquario, incapaci di agire su quello che avviene fuori, dove la gente vorrebbe rompere l’acquario e vederli ansimare per terra.
Chi può, cerchi di ridurre il malessere, in fretta, molto in fretta, anche se con qualche errore. Bisogna.

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Cosa è l’antipolitica 1

L’importante affermazione di Grillo e dei Grillini ha molto stimolato la fantasia politologica e ha richiamato molte definizioni tra le quali ha primeggiato quella del successo della antipolitica. Il fenomeno è così diventato comunemente e nelle definizioni di stampa, proprio quello della antipolitica, che significa essere contro la politica, che è una categoria culturale e filosofica, da Aristotele in poi. Ma l’antipolitica non è qualcosa di autonomo, non richiama la distinzione, per fare un esempio, tra filosofia e teologia, tra matematica e chimica. Non dichiara nel suo essere “anti” ciò che ritiene di essere.
Nella storia del secolo scorso ne abbiamo avuto altri esempi. Dopo la guerra 39 /45, in mezzo alle distruzioni ed alle conseguenze del conflitto civile e culturale dopo il 1943, la protesta dei cittadini, la loro divisione tra monarchici e repubblicani, fascisti e antifascisti, democristiani e comunisti, agrari e contadini, portò alla polemica sulla politica e i suoi uomini, sulle “interferenze” nella vita individuale e sociale. Fu così che un giornalista e commediografa abbastanza noto, Guglielmo Giannini, fondò il Fronte dell’Uomo Qualunque, contro i politici accusati di essere fautori di guerre e scelte dannose per la collettività.
Va detto, per buona memoria, che Giannini perse, nel 1942, in guerra, il giovane figlio e ne fu sempre condizionato. Con il motto un po’ grillino “non rompeteci le scatole” (tutto sommato meno duro degli epiteti attuali) Giannini si affermò con la Internet del suo tempo (che era il giornale, il suo “l’Uomo Qualunque” che nel 44.45 vendeva oltre un milione di copie . Era il “qualunquismo” contro la politica, oggi potrebbe essere il “grillismo”. Il qualunquismo di Giannini portò all’Assemblea Costituente ben 30 deputati e in Parlamento, di colpo, quasi il 6% dei rappresentanti dei voti.
Però di fronte alla politica istituzionale Giannini dimostrò che non basta essere contro e anti. Tentò alleanze con la Dc, il MSI, il PCI di Togliatti che prima aveva violentemente dileggiato. Questo ci ricorda il più recente rapporto tra Bossi e Berlusconi con gli insulti connessi. Nel 1953 tutto finisce, dopo una legislatura “non sense” per l’Uomo Qualunque. L’esperienza del partito – movimento – fronte dell’Uomo Qualunque, fini ma rimase il qualunquismo, espressione in qualche modo della critica anche legittima ma senza proposta, della non ideologia senza però un “pragmatismo politico” capace di governo nelle grandi scelte,di una protesta senza proposta e senza autonoma capacità di governo, essendo destinata comunque a posizioni pur dignitosamente minoritarie.
Il comico genovese, come del resto Giannini, non è certo uno stupido, un po’ c’è, ma molto ci fa per navigare sull’onda, è attento all’analisi psicologica dell’elettorato, sa che una buona battuta vale più di un comizio, che uno spettacolo divertente rende di più di una buona lezione. Sa anche che, in questi tempi duri causati anche da cattivi governi, di lezioni la politica non ne può né sa dare. È di una revival di qualunquismo?. È definibile come antipolitica? Ci si pone un problema di logica: per definire la antipolitica va dapprima definita la politica e verificare come essa si esprime, se corrisponde alla sua natura teorica e teorizzata da tanti grandi spiriti o non sia divenuta qualcosa di altro e di diverso
Dobbiamo riflettere non tanto sul grillismo fenomeno sociale comunque temporaneo nella attuale versione ma sulle basi su cui poggia un successo certo non travolgente come il fascismo (senza riferimenti politici di contenuto) ma più simile ad un leghismo senza limiti territoriali, già ampiamente alle corde del consenso. Tra votanti e non votanti uniti in una protesta, in fondo Grillo vuole dar voce ad un popolo preoccupato, stanco, deluso che non rifiuta i leaders e dirigenti ma li cerca diversi, che vuole non la antipolitica ma una politica capace. Ecco ancora la antipolitica : nella prossima riflessione cercheremo di vedere cosa è.

Cosa è l’antipolitica 2

Per sapere cosa possa essere “l’antipolitica” bisogna comprendere bene cosa sia la politica o, meglio, cosa essa è oggi. Partendo dall’assunto aristotelico che dove c’è uomo c’è politica, non c’è bisogno di citare tutti testi che ci descrivono la politica, per restare alla modernità da Max Weber a Sartori. Tutti sappiamo che la politica è il governo di ciò che è dei cittadini, che si esprime in forme (certamente nel mondo più sviluppato) formalmente democratiche, e che le elezioni libere sono il momento importante della politica democratica stessa. In un certo senso noi ormai identifichiamo il concetto di politica con quello di democrazia. Ma non va dimenticato che sono politica anche la dittatura, la oligarchia, altre forme di potere, militare, religioso, settario, tribale.
La politica trova la sua attuazione del governo del paese ma è politica anche la protesta, la critica, l’opposizione. Gandhi scrisse che “in democrazia nessun fatto di vita si sottrae alla politica”, e ed è certamente vero, ma ciò avviene anche in altre forme di governo anche se certamente con conseguenze diverse.
È politica tutto ciò che riguarda le persone, in tutte le sue forme. Di fronte a questa totalità della politica è possibile un “anti”? Si può essere contro una politica particolare, contro alcune o tutte le scelte, anche contro quei particolari politici. Ma già nell’essere contro si fa politica. Se poi si vive in un paese democratico, la politica tende ad identificarsi con il buon esercizio della democrazia che non può e non deve essere limitata al fatto elettorale ma si estende sempre più al controllo partecipativo, al pluralismo delle opinioni, all’apertura delle scatole chiuse e nascoste del potere. Se ne deduce che l’antipolitica non esiste, è un modo di definire l’opposizione (con o senza proposte alternative) ad una particolare politica, ora, purtroppo, talmente generalizzata nelle sue componenti partitiche da apparire, momentaneamente, tutta la politica. In un certo senso l’antipolitica potrebbe essere individuata nell’astensionismo elettorale, che, va ricordato, è diverso dalla scheda bianca, e che rifiuta non l’unico, ma il più importante comportamento della democrazia. Neppure questo però lo è. Oggi dunque, non viviamo affatto l’antipolitica, ma l’affermazione, con il libero consenso elettorale, del rifiuto di questa particolare politica, intendendosi quanto espresso, nelle azioni e soprattutto nelle omissioni, della politica dei partiti. Essa è, veicolata in un Parlamento di nominati e di persone politicamente dipendenti da oligarchie che detengono il potere economico e di nomina nei partiti stessi, sostituendosi agli stessi elettori.
L’antipolitica è in realtà un tentativo di alternativa ad una politica ritenuta cattiva e lesiva dell’interesse dei cittadini, caratterizzata da violenti e numerosi episodi di corruzione, penale e dei costumi, totalmente autoreferenziale e dunque lontana dal pubblico giudizio. Essa è garante di uno Stato burocratico e costoso sia al centro che in periferia, di una giustizia, soprattutto civile, inefficiente ed eterna, quando non (vedi particolarmente quella del Consiglio di Stato) fortemente coinvolta nella gestione politica. La crisi economica internazionale è il detonatore ma la bomba è lo stato del Paese che essa evidenzia in modo esplicito in tutti i suoi limiti e difetti, finora accettati dalla stessa società civile, quella degli industriali, dei commercianti, dei professionisti, dei sindacati di categoria ed altri ancora. Senza contare dei veri padroni dell’economia che la sostengono: i finanzieri, banche e banchieri. La domanda rimane: può quella che chiamiamo antipolitica e che è una forma diversa di opposizione, risolvere i problemi di questo Paese? Ha in sé almeno parzialmente in e classe dirigente per poterli affrontare? Dando per scontata la sua buona fede e buona volontà potrà e saprà difendersi dall’assalto dei profittatori che faranno fuori gli idealisti delle origini come, solo per fare un esempio, è avvenuto nella Lega e per i migliori di Forza Italia? Potrà superare la dittatura dei capi, prima Berlusconi, poi Bossi, poi Grillo che certifica personalmente i candidati ?
Chi voglia porsi seriamente questi problemi, senza alcun interesse se non quello del Paese, dovrà pensare molto. Né la rivoluzione francese così sanguinosa, né quella sovietica ancor più drammatica, hanno risolto i problemi di Francia e Russia. La Francia ebbe la restaurazione e Napoleone, in Russia decenni di terribile dittatura. Solo il ritorno a valori condivisi, a programmi onesti e coraggiosi, al senso dello Stato di tutti e di una Europa reale e non fittizia e burocratica, ci potrà contribuire a ristabilire un po’ di ordine e creare l’indispensabile sviluppo. L’antipolitica non esiste. La politica è legata all’uomo (vorremmo dire sapiens ) al suo status, ai suoi limiti, alla sua cultura, ai suoi tempi, anche drammaticamente lunghi. I suoi tempi sono dunque i tempi della stessa politica. Come per l’uomo e la sua crescita ci vorrà molta, molta pazienza.

Verona non fa testo

Il risultato di Verona è chiaro fino all’ovvietà. Come facilmente prevedibile Tosi ha stravinto, il Popolo delle libertà ha straperso e la Lega pure, come si vede dai voti di lista. A parte la vasta area delle astensioni dal voto, i grillini sono esplosi al 10%, dando voce, ma non progetto, alla giusta protesta dei cittadini. Il parlamentare leghista Salvini ha inteso il successo di Tosi come esito leghista, punto da cui ripartire, o ha finto di intenderlo così. Ma la realtà è un’altra: Verona, come del resto Palermo, sono improponibili come soggetti di analisi nazionale, sono fenomeni diversi e strettamente legati alla realtà locale e cittadina. Entrambi certo legati allo sfacelo del Pdl e della sua classe dirigente, alle sue lotte interne a caccia di un potere che non c’è più e che comunque non merita più di avere.
Si parla della necessità di rinnovamento, di classe dirigente giovane, di esigenza popolare di novità politica. Mentre in Francia si elegge il presidente Hollande (primo socialista eletto dopo quasi vent’anni, dopo Mitterrand) a Palermo si elegge Leoluca Orlando che, alla faccia del nuovo, era sindaco proprio ai tempi di Mitterrand.
A Verona l’elezione di Tosi era prevista: per la situazione politica veronese, l’assenza di vere alternative (nel Partito democratico e nel Popolo delle libertà), la sua popolarità incrementata da un poderoso ufficio stampa e la sua indubbia intelligenza politica unita a un forte senso tattico. Ma la lega non c’entra che pochissimo: di fronte al 57,3 % di voti ha inciso, come partito della Lega, solo per il 10%, in pieno Veneto, dove era abituata a prendere non meno del 30.
Ecco perché l’esito di Verona non fa testo: i voti di Tosi sono di Tosi, personalmente ottenuti, anche ad onta di oggettivi limiti della sua gestione amministrativa scarsamente contestabile dalla pochezza politica degli avversari.
L’esito delle elezioni amministrative va valutato dunque detraendo alcune situazioni dove una capacità di leadership del candidato o la nullità delle sue opposizioni hanno in qualche modo “personalizzato” il confronto. Il resto è piatta cronaca: la protesta canalizzata dal grillismo e dall’astensionismo; la stanca delusione dal crollo di voti del centro destra, da un elettorato in cerca di alternativa al berlusconismo ed insoddisfatto della “mediocritas” di Alfano e soci e dal fatto che egli, che pur sembra una brava persona, appare troppo circondato da brutti ceffi del malaffare politico di questi anni di potere.
La sinistra regge abbastanza bene allo sforzo, ma paga un po’ il prezzo del governo Monti, i sacrifici richiesti e quelli eccessivi, la non ancora attuata equità con i più ricchi, la politica, speriamo ancora per poco, merkeliana e troppo “euro tedesca”.
I segnali sono forti ma queste elezioni sono locali e non politiche. Per quelle c’è poco tempo ma, sufficiente ai partiti “tradizionali” per fare altri errori, per difendersi con improvvisate ed inutili “linee Maginot”, per mascherare altri scandali e cattive amministrazioni. I partiti, questi partiti, sono alla resa dei conti ma non saranno sostituiti dal grillismo, capace di critica ma, almeno non ancora, di proposte.
Ci saranno altri eventi, forse provenienti da aree imprevedibili, che vorranno essere risposte ad un Paese che, dopo sbornie di falso ottimismo e di politica spettacolo con nani, ballerine e un po’ di banditi, sente il bisogno della serietà, della competenza, del senso dello Stato e l’esigenza di una politica di solidarietà, di senso sociale, di giustizia effettiva e di attenzione verso i più deboli. Questi valori vengono ora definiti come “nuovi” e si vuole gente nuova per realizzarli. Ma sono i valori dell’antica buona politica che da troppo tempo è stata dimenticata.

Il proclama di Oiram Itnom

Segnalo un simpatico e rivelatore articolo di:
Pietro Di Muccio de Quattro

Tutti l’hanno potuto vedere. Era in collegamento mondiale. Tv satellitari impazzite. CNN, AL JAZEERA, BBC, tutte. Come sia riuscito ad attirare l’attenzione dell’orbe terraqueo, si sa. E’ il primo uomo venuto dalla luna. Ha fatto il percorso inverso di Armstrong. Pur provenendo dal satellite del nostro pianeta, non sembra neppure un ‘lunatico’. Infatti ha le sembianze della razza umana. Piuttosto alto, magro anziché no, miopia da studioso, eleganza sobria ma non si direbbe di sartoria, tono pacato, eloquenza argomentativa da consiglio d’amministrazione piuttosto che da condominio politico. Le prime notizie riferiscono che, entrato misteriosamente in contatto con il presidente della Repubblica mentre scrutava la terra, vi sia stato immediatamente attratto dal raggio fotonico quirinalizio. Piaciutisi al primo contatto, il presidente gli ha conferito la più alta onorificenza nazionale ed affidato la missione di salvare l’Italia dagl’Italiani, universalmente ritenuta impossibile, però sulla Luna non lo sanno. I popoli della Terra, invidiosi della fortuna capitata allo Stellone, anelano ad un oriundo simile, ma solo l’Alto Colle possiede i neutrini più veloci della luce capaci di teletrasportare i lunatici antropomorfi. Il nome dell’alieno, che l’ufficio stampa presidenziale ha dovuto presto diramare, Oiram Itnom, è parso di buon auspicio. I più colti hanno notato che suona come un nome etrusco. Essendo lunatico, ha preso seriamente l’incarico e, dall’iPad astrale, ha scaricato enormi dossier di studi sul Paese, li ha trasformati in nanolibri con il compattatore di ultima generazione celeste e inseriti direttamente nel cervello dove si sono fusi con i neuroni. E’ stato così che ha potuto sciorinare in diretta televisiva il programma per scongiurare la bancarotta italiana. Lo ha precisato lui stesso. “Parlo al mondo, al vostro, si capisce, perché solo il mondo vi può salvare.” E ne sono subito parse evidenti le ragioni. Urbi et orbi.
“Italiani, se non volete precipitare, dovete aggrapparvi a me sostenendomi. Io non vi porto un nuovo decalogo. Sulla Luna abbiamo solo il trilogo. Eccovelo: a partire da adesso tutti i redditi saranno tassati al 20% fino a €100.000 e al 30% in poi; nessun euro in più sarà speso di denaro pubblico per i prossimi dieci anni; gli evasori dovranno confessare le somme evase in passato, che saranno ‘una tantum’ tassate al 5%, e chiunque avrà evaso o in futuro evaderà un euro sarà processato per direttissima da apposite sezioni giudiziarie immediatamente istituite, che irrogheranno la pena di un giorno di prigione, senza attenuanti e condizionali, per ogni euro evaso. La cura produrrà benefici a distanza. Nel frattempo, però, porterà il debito pubblico da 2000 a 3000 miliardi. Perciò chiediamo ai creditori di dilazionare il debito ed ai popoli di accordarci l’ulteriore prestito.”
Il proclama sta facendo il giro del web. Milioni di internauti twittano e postano giudizi. Oiram Itnom aspetta il responso della democrazia, incomprensibile roba da terrestri.

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Il pungitopo

La quadratura del cerchio

L’ex ministro dell’interno Maroni, ha fatto un miracolo: ha ottenuto (qualcuno dice realizzato) la quadratura del cerchio. Quello magico della Lega. Pochi mesi fa gli volevano impedire di andare a parlare alle manifestazioni del suo partito, ora è lui che ricambia con le espulsioni e sanzioni. Sic transit gloria mundi.
Secondo il gergo leghista, assai esportato anche altrove, ha realizzato la “quadra” del problema del potere interno alla Lega, impossessandosi, come dice la senatrice Rosi Mauro, o togliendo le punte e graziando il nucleo bossiano, oltre che qualcuno un po’ suo, come Boni, ancora Presidente del Consiglio regionale lombardo. Quadratura ottenuta. L’esperienza politica, con altri leaders di questo sfortunato periodo, ci dice che il quadrato, con l’usura del tempo e del potere, tende a diventare cerchio. Maroni  lo sa bene e lavora perché ovviamente il cerchio sia del suo.

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Operazione riuscita, paziente deceduto

La crisi finanziaria internazionale morde ancora e nulla garantisce una stabilizzazione definitiva. I debiti sovrani degli Stati sono sotto il ricatto della speculazione dei mercati, gli Stati stessi sono finanziariamente deboli ed economicamente fragili di fronte alle ondate mondiali di una finanza aggressiva.
L’Europa è più debole di tutti, perché è politicamente inesistente, con leaders di minor calibro che non in passato e spesso incerti sotto scacco delle incursioni della pirateria finanziaria.
Le economie nazionali possono fare qualcosa in questa situazione? Le esigenze tecniche e dei tecnici possono essere superiori a quelle sociali e di una politica per i cittadini e non solo per banchieri e finanzieri?
Non sottovalutiamo l’esigenza di ricette dure, anche perché bisogna pagare lo scotto delle precedenti follie, della demagogia dei partiti, degli eccessi dei sindacati, della semplicistica ricerca dei consumi, del do ut des di una democrazia malata.
Ora paghiamo il conto di anni di spesa pubblica incontrollata, di un immane debito pubblico, frutto non dalla realizzazione di opere pubbliche e di investimenti ma dalla creazione di una economia di Stato di tipo para politico e socialistezzante, portata piena di aziende divenute succursali economiche dei partiti e che si occupavano di tutto, pure della produzione di panettoni.
Basti pensare alle nostre partecipazioni statali ed alla successiva liquidazione di IRI, EFIM, e mille altre.
L’economia ed il comportamento finanziario dei decisori, si ispirò, ad un certo punto e per porre rimedio, e non solo in Italia, a politiche diverse che spostavano il baricentro del comportamento economico verso il monetarismo, l’equilibrio di bilancio, le tesi di Milton Friedman e della sua scuola, la produzione di moneta in modo continuo. Sia la Banca d’Italia che quella Europea hanno operato in questo spirito e sull’economia basata sulla moneta, magari stampata in abbondanza che ha preso il sopravvento e lo ha ancora.
Non è escluso che, in tempi di congiuntura normale, le tesi di Friedman abbiano aperto prospettive assai interessanti, ma non hanno impedito il ritorno delle grandi crisi, magari attenuandone i fenomeni inflazionistici, ma aumentando in modo assai grave la prevalenza della finanza (soprattutto speculativa) sulla economia produttiva reale. Senza contare la globalizzazione.
In periodi di congiuntura straordinaria e di crisi, come avvenne peraltro dopo il 1929, ci paiono più consone politiche economiche di tipo Keynesiano, con investimenti in opere e in economia, non gestite da aziende di stato ma dallo Stato stesso controllate. In sostanza la politica anti crisi portata avanti dal Presidente Roosevelt negli USA.
Ora gli economisti, i “tecnici”, magari vestiti da politici, data l’incapacità di quelli “veri”, ci danno soluzioni da lacrime e sangue, riservate però, più ai deboli che i forti, ai poveri che ai ricchi. Una cura da cavallo, con asini e muli sotto la soma e cavalli “di razza” esenti o quasi, in stile molto vetero liberale e poco democratico.
Se, ed abbiamo seri dubbi, la cura sarà efficace, ci troveremo prima o poi con i bilanci apparentemente in ordine. Ma rischiamo di tornare all’epoca di Quintino Sella, quasi 140 anni fa, grande scienziato ed economista, Ministro delle finanze che mise le basi per ottenere il pareggio di bilancio con una “economia fino all’osso” (come lui stesso la definì) ma giungendo ad imporre la famigerata “tassa sul macinato” l’ultima di una lunga serie di pesanti imposte e gravi restrizioni.
Ma Quintino Sella governava l’Italia, un paese appena nato, tra il 1862 e il 1873. La sua grandezza e da tutti apprezzata per molti meriti non solo di governo ma la durezza economica dei provvedimenti aumentò la grave crisi sociale, portò alla “rivolta dello stomaco” contro il prezzo del pane aumentato sempre più dalle tasse, condusse alla repressione militare del generale Bava Beccaris che fece sparare sulla folla dei rivoltosi a Milano.
Il paragone tra le due situazioni è ovviamente improprio ma le ragioni della rivolta sono sempre legate al disagio sociale ed alla fame.
Certo i tecnici, Sella in primis, avevano buone ragioni, ma la destra liberale perse il potere e per 20 anni governò la sinistra che introdusse più moderazione nei tempi e ridusse la pressione dello Stato. Anche allora i territori più bersagliati dai provvedimenti erano quelli più sviluppati: Milano, Como, Varese, Bergamo e Brescia, la Lombardia.
Tecnicamente i chirurghi avevano operato bene, secondo le regole economiche, ma il bilancio malato dello Stato veniva ovviamente curato sulla pelle dei cittadini che erano il vero paziente. E, naturalmente per quel tempo, ma in genere per tutti tempi, pagavano i più poveri, i più deboli.
Del resto sappiamo che, salvo casi particolari, i ricchi non sarebbero ricchi se avessero pagato tutto come i poveri! Il chirurgo, tecnico per definizione, deve certo puntare al successo del suo intervento, ma con la moderazione, la selezione, la giusta tutela del comune interesse, la capacità di guadagnare il consenso, non solo elettorale.
Sarebbe assai triste un’operazione riuscita con un paziente defunto.

Il buon leghista

Ho atteso un po’ prima di scrivere degli scandali leghisti perché non volevo mi facesse velo il mio giudizio sempre negativo su quell’esperienza politica, ad onta della giustezza di alcune, poche ma importanti, sue intuizioni. Non era tanto la sua posizione palesemente estrema in alcune espressioni che non potevo accettare, quanto le caratteristiche della sua dirigenza, sia locale sia nazionale, che, pur migliorando nel tempo, manteneva, nelle sue espressioni più significative, un che di tribale, di pagano, di aggressivo pur se non violento, il rifiuto del patrimonio culturale che il nostro paese ha espresso anche e soprattutto nel Nord del Paese da Venezia a Torino, da Genova a Ravenna a Bologna a Firenze e via dicendo.
L’elenco delle esasperazioni leghiste è lunghissimo e, certo, non deriva dalla base ma da una dirigenza che aveva fatto della demagogia, un bel po’ fanfarona, un metodo, un po’ vetero comunista un po’ vetero fascista, per ottenere piazze piene e urlanti consensi.
Essi però si trasformavano in voti perché, anche se solo in parte, evocavano disagi veri, rivendicazioni presenti nella “pancia” di un elettorato ingrassato, ricco, dimentico del suo passato e orgoglioso del suo presente, conservatore, con difficoltà a vedere le novità del mondo, le migrazioni, le povertà e le nuove ricchezze.
Questa improvvisata dirigenza (non la sola, vista anche la lezione degli altri partiti del centro destra soprattutto) si è trovata dunque al potere per quasi dieci anni, gli ultimi, e ne ha conosciuto i benefici ed anche i privilegi, ci si è affezionata, vi ha inserito legittimamente i suoi uomini e le sue donne. A qualunque livello fossero.
Sembrava che, a parte episodi minori e periferici, la Lega forse però fuori dai fenomeni di mal governo che caratterizzavano gli altri partiti, più o meno tutti quelli a contatto con il potere vero, quindi tra Stato, regioni, province, grandi comuni ed enti economici connessi, più o meno tutti.
La Roma ladrona, per il buon leghista, evocava le manifestazioni con le corde da impiccagione in Parlamento, il giustizialismo più duro e immediato. Roma era un covo di malaffare e non del tutto a torto. Anche Milano però non scherzava in mal governo, ma erano sempre gli altri, solo gli altri.
Poi, il buon leghista scopre che a Milano, avendo molto potere, anche i suoi capi mangiano e di buona lena; che il sempre sorridente presidente del consiglio regionale Boni sa stare bene a tavola, in buona compagnia con il pidiellino Nicoli Cristiani e parecchi altri. Una tavola imbandita in comune e, il buon leghista si chiede assai sorpreso, perché Bossi e lo stato maggiore solidarizzano con Boni, non vogliono che si dimetta, decidono che resti lì.
Poi, quando la Lega fa la voce grossa dell’opposizione, dopo un’inutile decennio di rumoroso ma inefficace governo, scoppia la bomba e proprio nella ristrutturata casa del capo, in quella del mitico Gemonio, dove, in un frugale pasto di polenta e sardine, fu fatto cadere il primo governo Berlusconi che subito divenne per bocca leghista, Berluscazz, mafioso, corrotto e tanto altro ancora. Mentre D’Alema definiva la Lega “una costola della sinistra” e, il presidente Scalfaro, soddisfatto, garantiva il non ricorso alle elezioni.
Ora, il buon leghista sente la vergogna e la rabbia, non vuol credere a quanto dicono le indagini, s’impone di non credere: alle lauree fasulle e pagate a caro prezzo, alle auto di lusso, alle case in Sardegna della vice presidente del Senato Rosi Mauro, alle spese private, ai costosi capricci del figlio politico e di quello apolitico e tanto altro ancora e con i soldi del partito pagati anche dai cittadini non leghisti.
Il buon leghista di periferia si chiede, nel suo dialetto che gli hanno detto essere di origine celtica, cosa sia successo e si risponde che non può essere, che Bossi era ed è malato, che non sapeva nulla, che non poteva capire.
Ma sa, dentro di sé, che, pur certamente malato, era un importantissimo ministro di Stato nella Roma ladrona e che decideva per i lombardi ma anche per i siciliani e i “terroni” vari.
Come poteva ignorare tutto, anche quello che gli diceva, col garbo dovuto, la sua fedele segretaria? Il buon leghista lo rifiuta, ma lo sa!
Allora fugge altrove: ci sono bravi leghisti di vertice che volevano cambiare, che non sapevano, che non hanno potuto controllare. Ne cita due: Roberto Maroni e Roberto castelli, che sono stati il primo Ministro dell’interno, l’altro Ministro della giustizia per lungo tempo e, tra l’altro, membro della commissione amministrativa della Lega. Entrambi capi di dicasteri, dove si può sapere tutto, con strumenti di informazione colossali, con orecchie larghe e sensibili.
Anche loro, dice tra sé e sé il buon leghista, non sapevano nulla. Ma allora perché chiedevano, prima di questi eventi, le dimissioni del tesoriere? Solo per dei sospetti di qualche irregolarità? Il ministro Maroni, che vantava per sé il merito di avere fatto scoprire mafiosi di primissimo livello, non sapeva nulla di quanto avveniva in casa sua?
Questo quadro politico non vuole essere di accusa “penalistica” ma di analisi politica. Si guarda alla Lega nella constatazione che nessun partito, come, infatti, avviene, scaglia pietre su Bossi, non solitario emblema di un sistema che, in modo ognuno diverso, tutti i capi dei partiti condividono.
È un sistema che merita un’analisi seria, una profonda riforma, ma che tutti già conoscono, che sta esplodendo in modo assai forte e nel mezzo di una grave crisi economica e politica e di cui la vicenda leghista è il detonatore più potente, proprio perché si riteneva, dagli ingenui, la Lega meno coinvolta.
L’analisi del sistema è legata al livello della classe dirigente che alcuni di questi capi hanno voluto, non tutta ma quella che conta. Basta pensare che l’amministratore leghista. Belsito, prima di entrare in politica con la Lega e diventare addirittura Sotto Segretario di Stato, faceva il buttafuori di una discoteca. Certo, non aveva la giusta cultura, la preparazione, la formazione per diventare, tout court, membro di Governo. Bossi, quando faceva le scelte dei suoi dirigenti, non era ancora malato.

Basta passeggiare in città

Ho ricevuto dall’amico Ezio Zadra, una simpatica nota, apparentemente solo descrittiva, su un problema assai importante. Ritengo utile pubblicarla con una risposta, magari meno simpatica, ma credo consequeziale.

Fin dalla più giovane età ho sempre avuto una passione assai forte per girare il mondo non solo per vedere le città, ma soprattutto per conoscere i popoli: poter parlare con le persone, discutere della loro vita, della loro organizzazione, dei problemi, della visione che hanno per questa e per l’altra vita.
Naturalmente la vita non ti lascia fare quello che vuoi. Devi fare il latino altrimenti ti bocciano, devi fare l’algebra e la geometria, devi andare avanti con il tuo programma per non restare disoccupato, poi devi lavorare ed importi per non perdere il lavoro, si aggiunge una famiglia ed il tuo sogno iniziale è sempre latente ma la sua realizzazione viene progressivamente differita. Da una settimana sono pensionato ed ho più tempo!
Posso riprendere i miei studi ed organizzare finalmente il programma di viaggi per l’incontro con le popolazioni.
Mi sono fatto un programma di studi inserito in un complesso, non di passeggiate, ma di marce da fare in città ed in periferia per mantenere il fisico.
Così ho rivisto per bene la mia città: sorpresa!
Cammino per la città verso le 11, del mattino, e trovo capannelli di giovani tra i venti ed i quarant’anni che stanno chiacchierando in albanese. Poco più avanti giovanotti diversamente colorati, ti si avvicinano con una mano tesa e la fotografia di una famiglia con una decina di ragazzini ed una o due donne e non capisci se ti chiede qualcosa da mandare a loro o se vuole qualcosa per aiutarlo a farli venire qui.
Guardo la mia città e vedo che ormai i ristoranti sono per il 30% etnici. Un po’ meno i negozi, ma la proporzione riprende drasticamente quota quando passo per il grande mercato ambulante dove c’è ancora qualche commerciante stanziale che si guarda in giro con aria sconsolata e vedi che sta pensando: ma perché non si comprano al che il mio stand?
Più in là un gruppo di sudamericane sta discutendo concitatamente. Qui gli studi fatti per le lingue servono: non ascolto perché mi sembrerebbe indiscreto, ma sento che stanno parlando di una compagna che è stata ferita in un night.  Associo subito il pensiero: quando ho lasciato il posto di lavoro ho invitato i colleghi a cena e quindi a bere un digestivo in taverna. Lì, siamo stati circondati da un gruppo di ragazze sempre sudamericane che hanno parlato con noi e che ci hanno detto di essere venute in Italia come rifugiate politiche.
Se parlano di questo, dovranno essere colleghe, penso. Le guardo bene e stimo la loro età tra i 18 e i 20-22 anni. Mi ripasso a mente la storia del Sudamerica. Potrò sbagliarmi ma i fatti del Cile, della Bolivia erano di molti anni fa. Mi sbaglio io, o ricordo male i libri della Allende? Ma se queste sono rifugiate politiche, quanti anni avevano quando hanno operato contro i regimi? Due o tre, al massimo cinque, sempre che fossero già nate. Va bene la precocità, ma se queste facevano politica a quell’età, sono e rappresentano un patrimonio di critica e di coraggio che non può essere disperso nei locali notturni dove piacciono di più le forme fisiche di quelle mentali. Prendiamole subito nei partiti e facciamole diventare consiglieri comunali e poi… si vedrà.
Durante questo cammino, incontro filippini, spesso occupati nei giardini delle case più nobili, pakistani che non capisco bene cosa stiano facendo, ma sembrerebbero fare gli artigiani e tante russe od ucraine per lo più intente a fare le badanti.
Ma il numero di persone che sono a passeggio a quest’ora è impressionante! Cosa fanno per vivere? Sono già pensionati anche loro?
Se lavorassero, alle 11 del mattino non sarebbero sulle passeggiate a fare capannello. Come mai hanno moglie e figli piccoli? Ma non saranno forse anche questi dei rifugiati politici?
Mentre mi pongo tutti questi pensieri, combattuto tra il dovere cristiano di accogliere il viandante e la sciocchezza economica di mantenere chi non lavora, cosa che determina un evidente spreco che prima o dopo ci ricadrà sulle spalle con una ennesima finanziaria, ecco l’illuminazione!
Sorrido da solo, vorrei abbracciare tutti gli stranieri che incontro: hanno risolto il mio problema. Ho un enorme risparmio di costi e di disagi. Finalmente ho raggiunto la possibilità di incontrare tutti i popoli restando qui: mi basta uscire di casa e parlare: ho qui tutto il mondo!
La full immersion nella realizzazione del mio sogno la ottengo facendo le ferie in città.

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Rimpiangeremo il porcellum?

È un momento buio per la politica: risulta, dai sondaggi, che solo il 4% degli elettori abbia ancora fiducia nei partiti e quindi il 96% non ne ha. I pochi che credono nell’essenziale funzione della politica, se detraiamo quelli che di politica vivono e non sono pochi, pensano che sia indispensabile un colpo di reni, uno sforzo di volontà, una risposta positiva al malcontento che naturalmente si aggiunge alla grave crisi economica e alle tristi prospettive per il prossimo futuro. Aggiungiamo anche la totale frattura dei rapporti tra Parlamento e cittadini. In questi momenti si sente la mancanza di leadership effettiva, reale e non formale, di guida capace di proposta.
Questo motiva la persistente fiducia nel presidente Monti, nonostante la durezza dei provvedimenti che adotta, considerato come ultima possibilità per evitare il baratro greco ma quindi, se non soprattutto, dalla paura dello stesso, con conseguenze ben più gravi.In questo contesto, nelle stanze ovattate del Palazzo parlamentare, si riuniscono i capi dei partiti “maggiori”: Alfano (in rappresentanza di Berlusconi), Bersani e Casini. ABC li definiscono, ma qualcuno li definisce come UVZ, sintomo non dell’inizio ma della fine dell’alfabeto, emblematico della storia politica di questi decenni. Si riuniscono per definire i criteri e le modalità della nuova legge elettorale, per superare il “porcellum” odiato dalla gente, dopo che ben più di un milione di elettori, hanno tentato invano di abolirlo e, come male minore, tornare al Mattarellum.
L’intento dei tre è di fare una riforma che accontenti l’immagine e non riformi granché. Magari, al di là delle loro volontà, potrà peggiorare la situazione.
Ma per salvare questi partiti e la loro classe dirigente ormai dequalificata (pur fatte salve molte ma impotenti eccezioni), i tre “saggi” si sono portati dietro di ognuno i propri interessi e ognuno le leggi di un altro paese: la spagnola, la tedesca e l’inglese, per poter fare, nello spirito italiano del compromesso e della “tutela di tutti”, un cocktail col quale brindare alla sconfitta degli elettori.
Ne esce una legge con un sistema sostanzialmente proporzionale, con metà parlamentari eletti con la lista rigida e senza preferenze (a disposizione dei capi dei partiti) e l’altra metà con i collegi uninominali ma senza il doppio turno (e quindi anch’essi sotto il loro stesso governo). Con un premio di maggioranza, con l’indicazione del candidato premier, ma con l’eliminazione delle primarie e con un fantomatico diritto di tribuna. È come un vestito fatto di toppe, in stile arlecchino.
Si passa dal porcello al porcospino, con le spine rivolte a difesa delle oligarchie partitiche.
Niente a che vedere con la proposta dei più intelligenti studiosi della materia che propongono più semplicemente un sistema a collegio uninominale a doppio turno che garantisce la rappresentanza vera dei cittadini nei territori. In più, i tre capi prevedono una riduzione del solo 20% di deputati e senatori, mentre si potrebbe ridurre al 50%, come già spiegato in altre mie precedenti note. E se il Senato deve diventare il “Senato degli enti locali” bastano ed avanzano un centinaio di seggi. Il Senato dei Lander tedeschi, per tutta la Germania, ne ha meno di 80. Il cocktail predisposto dai tre grandi quanto temporanei leaders, piace a loro stessi, ma non va bene per gli italiani, per i quali si può rivelare come una grande truffa.
Un sistema elettorale è fondamentale per l’effettiva democrazia di un Paese e non può essere concepito per gli interessi, temporanei e non strategici, dei partiti di governo. Deve servire per la Nazione, per eleggere organi capaci e degni di gestire, con la vera rappresentanza dei cittadini, il democratico sviluppo del Paese.
Il pur paziente popolo italiano vuole qualcosa di nuovo, una classe dirigente diversa, più giovane, meno usurata dalle cattive esperienze, non troppo abituata al potere ed al suo abuso. E vuole, almeno per quanto riguarda il Parlamento, poterla decidere, non farsela imporre, sentirsi rappresentato. La politica deve capire che tutto ciò non si può ignorare. Dopo l’invenzione del “porcellum”(da tutti i partiti più o meno palesemente accettato), la gente ha cominciato a rivolere il “mattarellum”, anche per via referendaria, purtroppo interclusa.
Se passerà questa nuova legge, rischiamo di rimpiangere il “porcellum”, raggiungendo il massimo dell’ignominia. Si facciano dunque leggi per il Paese e non per i partiti, che già da troppo tempo l’hanno occupato.

Il pungitopo

Il potere logora chi non ce l’ha

Nel togliere i benefici agli ex presidenti di Camera e Senato, si è ancora una volta rivelato vero il detto “forti con i deboli e deboli con i forti” e soprattutto l’italica regola che le riforme si fanno per gli altri ma mai per se stessi e i propri amici.
Così gli ex presidenti di Camera e Senato (dopo i cinque anni, certo non scevri di vantaggi e prerogative), avranno, non più a vita ma per 10 anni dopo la fine del loro mandato, i lussuosi uffici a palazzo Giustiniani, quattro collaboratori a testa, macchina e autista e altri connessi. È già buona cosa la riduzione a 10 anni, ma le deroghe sono già visibili, per Violante, Bertinotti, Casini e Fini ci saranno i suddetti privilegi fino al 2023. Altri 10 anni.
Restano appiedati solo il vecchio Ingrao e la giovane Pivetti. Perché gli altri fanno ancora politica attiva.
Ma, le limitazioni non riguardano proprio i privilegi della politica? Il lupo perde il pelo ma non il vizio, quel vizio che vedrà massacrare lo status della povera gente e anche del ceto medio, ma non toccare i potenti, l’alta burocrazia dello Stato, le magistrature, le ricchezze. Forse perché convinti di questo, i rivoluzionari francesi di ghigliottinavano. Nonostante le migliaia di teste cadute, nobili e sovrani, tornarano  con e dopo Napoleone. Historia est magistra vitae.

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Missione in oriente

Il Presidente del Consiglio sta realizzando il viaggio in oriente per promuovere gli investimenti in Italia e l’Italia in quelle aree. Ma non è partito sereno, perché lasciava il paese di sempre, illuso dello scampato pericolo, dimentico della situazione e degli spreads di pochi mesi fa, sempre corporativo e attento al “particolare” machiavellico piuttosto che al generale interesse. In sostanza un paese che non si muove da almeno tre decenni, che parla di riforme che non fa, di giustizia che non esercita, di grandi opere che non realizza, di grandezze che non ha. Un paese, basta pensare agli ultimi anni, disponibile alla ricchezza di pochi, allo spettacolo, all’illusione; pronto a cambiare bandiera ma non l’esercito, qualche generale ma non la strategia, dove chi sbaglia non paga e il tempo che passa paga per tutti.
Cosa avrà detto e andrà a dire il sen. Monti ai frenetici popoli asiatici ed ai loro efficienti dirigenti capital comunisti? Potrà dire loro che non sono vere le notizie che hanno sull’ Italia, sulla nostra evasione fiscale, sulla corruzione della classe dirigente, sul vuoto politico dei partiti e sulla effettiva realtà dei sindacati, sulla crisi del sistema produttivo, sul ruolo mancato delle banche, sul deficit di pubblica moralità? Certo il suo è un compito difficile, più da venditore ambulante che da persona seria quale lui è: da questo punto di vista forse era meglio il suo predecessore, più idoneo allo scopo.
Dall’estremo oriente seguirà la vicenda parlamentare e politica italiana che sarà quella di sempre, alla ricerca del facile consenso, con la tentazione di dire che le cose non vanno poi così male, che la legge sul lavoro proposto dal suo governo non va bene, va corretta, ridotta, cancellata. I veri conservatori passano per progressisti e viceversa. E tutti sembrano dimenticare le proprie responsabilità, per nasconderle usano la falsa bandiera dell’articolo 18, ne fanno un problema ideologico quando serve solo a mantenere lo strapotere del sindacato, della sua organizzazione senza legge proprio come quella dei partiti, dell’immenso onere che rappresenta per lo sviluppo del Paese. Non si chiede, la signora Camusso, in verità chi ha fortemente contribuito alla situazione di gravissima difficoltà del paese, chi ha creato tensioni sociali ingovernabili, chi ha voluto le baby pensioni ( solo per fare un esempio), chi ha taciuto su provvedimenti sbagliati o ha ceduto facendo del diritto dei lavoratori più che la loro tutela la ragion d’essere del proprio potere, divenuto da sindacale a politico, tendente a sostituire la rappresentanza elettorale con quella associativa.
Non sono forse, anche queste, lacrime di coccodrillo, a parte quelle denunciate per il Ministro  Fornero, quelle della Cgil sullo status dei lavoratori?
E la signora Marcegaglia non ricorda la politica confindustriale, da quella che causò gli autunni caldi e che portava al massimo sfruttamento dei lavoratori e all’arroganza dei “padroni” e quella di continua richiesta di sostegni dallo Stato, dal pubblico in generale, come ci insegna l’esperienza, non certo unica, della Fiat e quella di una declamata economia liberale e di una reale continua ricerca del sostegno pubblico, fatta con i soldi di chi le tasse le paga davvero.
La vera riforma che si dovrebbe realizzare nel nostro paese, pieno di difetti ma, anche di grandi risorse, è di tipo culturale e morale, per scrivere regole idonee a ritrovare il senso della condivisione, della appartenenza, seguendo con i fatti quello che diciamo essere utile, nel sapere e praticare ciò che unisce e che non può essere solo il denaro e la corsa per conquistarlo.
Dovrebbe cominciare e dare l’esempio proprio la politica. Ma come fare se ormai nessuno insegna ai giovani che ad essa si avvicinano ciò che un tempo veniva tenuto come un principio, riassunto dalla frase di Monsignor Bonomelli, di matrice sturziana, che “la politica vale per quello che costa, non per quello che rende”.

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Il pungitopo

Tra Susanna e Maurizio

Susanna Camusso, segretario generale della Cgil ha interrotto la trattativa con il Governo, contrariamente a CISL e UIL, sulle possibili modifiche all’articolo 18 dello statuto dei lavoratori. Ci si chiede perché tanta durezza in una situazione in cui il sistema industriale è in crisi, le aziende vengono meno, falliscono, chiudono, si ritirano e i dipendenti stanno a casa, anche con l’articolo 18.
La risposta però non riguarda solo il presunto conflitto tra Susanna Camusso ed Elsa Fornero, l’altrettanto combattiva ministro del Welfare, ma soprattutto il conflitto vero con Maurizio Landini, segretario dei metalmeccanici, che addirittura vorrebbe trattare lui per tutta la Cgil. Ed è il duro e puro Maurizio a impedire a Susanna una linea più responsabile o, se si preferisce, di compromesso e mediazione. Ancora una volta sono le “diversità” nella sinistra, sindacale e politica, a non consentire alla stessa, qualunque essa sia, una linea comprensibile dalla gente che dovrebbe in futuro votare. Susanna e Maurizio, le due anime del sindacato, Bersani e Vendola, quelle di partito.
Difronte allo sfascio dell’antica portaerei del centrodestra, ora trasformata in una flottiglia di incrociatori leggeri e di scialuppe, la sinistra, ora più forte di prima, non trova, soprattutto al suo interno, una linea condivisa ed autonoma, dalle ambizioni interne alla stessa.
Come dare torto a tanta gente che imputa alla politica di aver perduto la ragione sociale dell’interesse del Paese, sostituita dalle lotte interne degli “azionisti” di partiti e di sindacati, per conquistare il posto di amministratore delegato di aziende ormai Insolventi ed ai limiti del fallimento.

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Articolo 18: prevedibile compromesso

L’articolo 18, ormai diventato il più noto articolo di legge del nostro ordinamento, è in fase di discussione finale tra governo e sindacati e, più in particolare, tra due “prime donne “: la Fornero e la Camusso. È una battaglia tra bandiere più che tra obiettive valutazioni, anche se pure queste non mancano. Le ragioni che avevano motivato questa legge erano certamente legate alla congiuntura storica e sociale, alla necessità, appunto, di uno statuto dei lavoratori, inteso come strumento di difesa e tutela degli stessi.
Il ministro del lavoro del tempo, il socialista Giacomo Brodolini che faceva parte del secondo governo Rumor (1968 -l 1969) avviò l’itinerario della legge 300, definita “statuto dei lavoratori” e promulgata il 20 maggio 1970. Più di quarant’anni fa. Il titolo della legge recita “Norme per la tutela della libertà e della dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e della attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento ” L’esigenza di questa legge era ormai viva da tempo perché seguiva la grande ricostruzione del primo dopoguerra, l’immenso sviluppo economico e delle condizioni dello stesso, nonché quello dei sindacati e le relative forti resistenze della Confindustria ad una politica industriale più consona alle esigenze dei tempi nuovi e dei lavoratori.
Gli anni precedenti erano stati caratterizzati dall’autunno caldo, dalle lotte di piazza e di fabbrica, da una tensione sociale che rendeva difficile la vita civile e politica del Paese. Lo scontro tra imprenditori e lavoratori stava diventando insostenibile e bisognava rispondere con una legge che riconoscesse e desse maggiore spazio e soddisfazione alle organizzazioni sindacali allora fortemente unite anche se concorrenziali nella famosa “triplice”. Lo statuto fortemente voluto dal governo Rumor e particolarmente da Giacomo Brodolini e dal PSI, fu studiato da una commissione presieduta dal giuslavorista  prof. Gino Giugni che la portò a termine anche dopo la morte del ministro, sulle sue direttive, avvenuta un anno dopo. Brodolini aveva fatto molto per il mondo del lavoro, eliminando le discriminazioni delle gabbie salariali e ristrutturando in modo forte il sistema previdenziale. Lo statuto fu realizzato dunque a tutela dei lavoratori e fu tra i più liberali in Europa.
Dopo anni di forte e talvolta cattiva gestione dei rapporti sindacali, la nuova normativa, già al primo articolo tutela la libertà di opinione ed il divieto di trattamento differenziato, nell’assunzione e nella azienda,per ragioni politiche,sindacali, religiose e di qualunque altro tipo. Tutta l’impostazione della legge è ispirata a tale volontà.
Anche l’articolo 18 che però è stato reso “ostico” per l’atteggiamento di sindacati e magistratura del lavoro, i primi eccessivamente portati alla protezione del lavoratore anche in casi di comportamenti obiettivamente gravi e censurabili, i secondi per un permanente atteggiamento giurisprudenziale di “condanna preventiva” del datore di lavoro sia esso una grande azienda o una struttura economica minore. La situazione è giunta a livelli che potrebbero motivare la domanda, paradossale, se sia meglio eliminare l’articolo 18 o la natura e la struttura della magistratura del lavoro.
La magistratura del lavoro nacque con la “Carta del lavoro”, istituita dal governo di Benito Mussolini nel 1927, come strumento dello Stato corporativo previsto nello stesso atto, all’articolo due dove dice “il lavoro sotto tutte le sue forme intellettuali tecniche e manuali è un dovere sociale… i suoi obiettivi sono unitari e si riassumono negli interessi dei produttori e nello sviluppo della potenza nazionale.” All’articolo cinque “La magistratura del lavoro è l’organo con cui lo Stato interviene a regolare le controversie del lavoro…” e all’articolo sei “Le corporazioni costituiscono l’organizzazione unitaria della produzione e ne rappresentano integralmente gli interessi… Le corporazioni possono dettare norme obbligatorie sulla disciplina dei rapporti di lavoro…” Non sembra, con le dovute eccezioni, che la magistratura del lavoro dello Stato fascista, forse particolarmente dalla parte dei lavoratori.
Per converso la magistratura “democratica” ha, seguito le linee politiche prevalenti della “ragione sempre ai dipendenti”, creando un clima di inutilità al suo stesso ricorso da parte delle imprese e facendo prevalere l’opinione, spesso esagerata, della “assunzione più impegnativa di un matrimonio”.
Ora siamo alla battaglia finale che non può finire con un’epica vittoria ma con un compromesso, una mediazione: la reintegrazione nel porto di lavoro sarà probabilmente più finalizzata e ridotta, il risarcimento finanziario più importante, le ragioni economiche dell’azienda vero motivo sostanziale per il licenziamento. L’articolo 18 rimane in equilibrio instabile tra l’esigenza di immagine vincente dei sindacati, quella normativa del governo e, perché no? quella dei magistrati del lavoro, speriamo, un po’ meno padroni di questo difficile rapporto.

No TAV: Il ricatto della guerriglia

Si sa che si stanno programmando per i prossimi tempi, nuove e più “intelligenti” ed efficaci manifestazioni dei No Tav, in varie parti d’Italia, per nazionalizzare il problema. La cosa ha una sua logica. Infatti, i rivoltosi di Val Susa, già da tempo, non sono solo in una piccola parte di Piemonte ma in varie città d’Italia, nel tentativo di far diventare la rivolta non un problema ma un movimento nazionale. Da tale va peraltro trattato, prima che diventi ingovernabile e con finalità ben diverse da quelle originarie come già appare chiaramente.
 Quando cominciò la drammatica vicenda delle brigate rosse, nella sinistra italiana, invero assai diversa da quella attuale, si parlava con molta comprensione di “compagni che sbagliano”, di esagerazione nel valutare le B.R. e la loro pericolosità. Fino a quando a Torino uccisero il sindacalista comunista Rossa che dentro le fabbriche ci stava davvero e aveva capito tutto, pagando con la sua stessa vita. Solo allora, il Partito Comunista comprese e si comportò di conseguenza. Ma quanto costarono al Paese questi ritardi di comprensione, questi tentativi di tenere vicini, per interesse elettorale, queste frange violente che si sperava forse di recuperare.
I rivoluzionari della Val Susa sono minoranze nella stessa valle, ma sanno fare molto chiasso ed hanno capito, i capi soprattutto, che tutto ciò può rendere politicamente assai bene. Lo hanno capito molto chiaramente gli estremisti di mezza Europa, i black block, i centri sociali e altri, che, infatti, sono in mezzo ai No Tav, alla popolazione che sfila “pacifica” ben sapendo che ci si attende lo scontro duro con le forze dello Stato. In questa vicenda la demagogia è la vera padrona, lo strumento è la violenza dissimulata con la provocazione e l’obiettivo è una diffusione, nel contesto di una crisi economica e occupazionale, di una sorta di guerriglia permanente, dove gli scopi sono anarcoidi e generalmente insurrezionali. Sanno contro cosa e contro chi, ma non per cosa e per chi. Guarda caso il principale nemico è il procuratore della Repubblica Caselli che certo non rappresenta né la bieca destra, né il conservatorismo, né il capitalismo speculatore.
L’unico modo per disarmare gli argomenti dei No Tav è quello di abbandonare il progetto, affermando la prevalenza delle opposizioni minoritarie violente e la debolezza totale dello Stato: la sconfitta della già debole democrazia di questo Paese, del confronto politico ed istituzionale, del dialogo e non dei veti, del diritto esercitato pacificamente e non della violenza delle piazze.
Il governo Monti ha affermato una linea dialogante, finché si può, ma ferma, che rifiuta il ricorso e il ricatto della violenza e della demagogia. Ma non pare si stia facendo granché su questa linea. Ci pare anzi che la distinzione fra i no Tav buoni e pacifici e quelli cattivi, come i Black block e i centri sociali, sia un equivoco da superare. In queste vicende anche le parole sono pietre e queste diventano proiettili e distruggono la convivenza civile nel Paese.
Le esternazioni minacciose del capo “storico” dei No Tav non devono essere sottovalutate. Le lamentele di una maggioranza di cittadini per una crisi del turismo su questo territorio devono esprimersi in modo deciso e dire chi effettivamente danneggia la valle, con l’alibi, ben confezionato, della tutela dell’ambiente. Il presidente della Regione, il leghista Cota, non deve speculare per chiedere compensazioni e denari dalla collettività nazionale che non siano ragionevoli rispetto ai danni reali ed accertabili.
 Bisogna riaffermare il senso vero delle autonomie, i loro reali diritti, le aree di competenza, la qualità della dirigenza locale che deve essere capace di fare di più e non solo protestare lamentele e accettare rivolte. La forza dello Stato deve esprimersi non solo, anzi sempre meno, con la forza della polizia ma con la certezza del diritto, la realtà della pena, la tempestività dei processi. È la mancanza di queste certezze che dà la forza non alla legittima protesta ma alla violenza come strumento di conflitto politico e di tentazione rivoluzionaria.

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Il pungitopo

Deputati: a casa per giusta causa

All’entrata di Montecitorio ci sono spesso degli intervistatori, talvolta maliziosi o con domande assai specifiche ma anche semplicemente indagatori. Ieri sera in tv, su Rai due, Gianluigi Paragone ha mostrato cinque o sei parlamentari cui si chiedeva cosa fosse il tanto discusso articolo 18. Scena patetica ed umiliante: nessuno aveva risposto in modo idoneo al… difficile e strano quesito!
Mi venne naturale pensare ai pericoli del famigerato articolo. Chissà se, (naturalmente dopo averlo conosciuto) quei parlamentari vi ricorrerebbero, in caso di licenziamento in tronco dal proprio incarico politico, sostenendo la mancanza di una giusta causa. Magistrati pronti a dar loro ragione non mancano certo.

 

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