Il popolo ha parlato: e poi?

Dopo tanti commenti, molti assai seri e motivati, e tante dichiarazioni, nessuno sembra aver veramente perso, e pertanto vale la pena una riflessione.
Qualcuno ha affermato che sono state le ultime elezioni della seconda Repubblica. Non è vero, le ultime saranno le politiche, anche se -come avviene in ogni storia- già, vediamo con quali grandi difficoltà nascerà la futura terza Repubblica.
Chi ha vinto? Chi ha perso? C’è stata una Stalingrado? Ci sarà la presa di Berlino?
Le immaginifiche visioni di Grillo, ovviamente, sono funzionali ai suoi obiettivi, al suo modo di essere nel difficile ruolo di un comico che affronta una tragedia.
Nel terremoto economico internazionale, che sembra non interessarlo, la tragedia italiana pare meno drammatica, solo perché sopravanzata da quella greca, ben più grave e densa di conseguenze immediate.
Nessuno può sottovalutare la gravità della nostra crisi, anche perché si tratta di una mala gestio dello Stato che viene da lontano, che ha le radici profonde, nel carattere, nella cultura, nella storia, nel modo di essere degli italiani. Senza andare ai Machiavelli e Guicciardini, basta rileggere il leopardiano “Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani”.
Questo status della nostra Italia non può obiettivamente essere affrontato con le battute di un comico, anche se esse ci dicono, in modo eccessivo ma assai chiaro le cose che non vanno, i limiti della nostra classe dirigente, gli scandali che una cattiva politica in una malata democrazia inevitabilmente produce.
La riflessione post elettorale va dunque rivolta al futuro, all’avvenire di un Paese che sembra risvegliato da un lungo sonno denso di sogni piacevoli, divertenti e sereni, indotti da un potere forse inconsapevole dei propri doveri. Va ricordato però che la classe dirigente di un Paese è sempre la proiezione di vizi e virtù, di speranze e delusioni, di benessere e malessere, della “cultura” del popolo elettore.
In democrazia, almeno quella formale, che si esprime in libere elezioni, è pur sempre il popolo che dichiara le sue volontà, esprime le rappresentanze, che può essere vittima di abbagli e seduzioni, d’illusioni e di fede in false promesse, ma è pur sempre il popolo che ci crede e non può non riconoscere le proprie colpe. E’ il popolo che preferisce il singolo interesse, (il particulare di Machiavelli), quello della categoria, della corporazione, del clan a quello generale, che chiede comportamenti virtuosi a tutti e nell’interesse di tutti.
Non mi stanco di ripetere che le dittature sono sempre nate sull’onda della protesta dei cittadini, spinta da problemi veri ma spinta dalla demagogia e, assai spesso, con i loro stessi voti.
Il futuro del Paese, dopo l’espressione elettorale alle recenti amministrative, è analizzabile in modo chiaro: la sinistra ha tenuto, la destra è crollata, il centro non attacca e il bipolarismo c’è ancora, ma solo come espressione di un senso di alternativa, la protesta di Grillo ha avuto un grande successo, anche perché, a livello locale, si è espressa con volti degni di attenzione e rispetto, che superano gli eccessi del leader comunicatore che avremmo voluto vedere in gara, personalmente, a Genova.
Ma il cinquanta per cento di gente che non sa come o non vuole votare, ci da la misura della gravità della situazione.
Il Paese dove sta andando? Gli elettori di centro destra, quelli che fanno fatica a votare a sinistra in questa situazione, dove trovano spazi di aggregazione? Le forze politiche hanno tutte perso credibilità e la gente esige un grande rinnovamento.
Se è vero che la dirigenza del Paese (non solo quella politica) è la più vecchia d’Europa, è anche vero che di forze giovani, con capacità politica e di governo, se ne vedono assai poche, per non dire alcuna.
Immaginiamo di mandare a casa la leadership politica del Paese: la sensazione è gradevole, via tutti quelli carichi di legislature, con lunghe carriere alle spalle, con scarsi risultati e scarso impegno, Oltre i totem del centrodestra, ormai tutti settantenni e anche più, (Cicchitto, ad esempio ha settantadue anni), non possiamo certo tenerci i La Russa, i Bondi, i Verdini, i Brancher, gli Scajola e via citando.
Che cosa possiamo salvare della dirigenza politica giovane, anche giovanissima, immessa per meriti non propriamente politici in questi venti anni che ci separano da Tangentopoli e dalla fine della prima Repubblica? I nomi di molte giovinotte intraprendenti sono molti, quelli di giovani bisognosi di non pochi apporti di cultura politica altrettanti. Dopo la prima finita con Tangentopoli, la seconda repubblica è deceduta per analoghi vizi e l’incapacità di esprimere una politica che non fosse di personalistica contrapposizione e, ad onta delle affermazione di tutti, di mantenimento dello status quo, di privilegi, ingiustizie rese diritti, non rispetto della legge e nicchie di potere e di abuso delle risorse dello Stato.
Non sappiamo se per fortuna o per disgrazia, non ci ha lasciato una classe dirigente per il futuro, e neanche per l’attualità, visto che si è dovuto ricorrere ad un Governo dichiaratamente non politico, posto che si possa dire che un Governo sia non politico.
Si è proclamata la fine delle ideologie realizzando anche la fine di idee e ideali, anche i più normali come la legalità, l’onestà personale, il senso dello Stato, la funzione della politica come fatto anche morale di solidarietà e responsabilità.
Le prossime elezioni non serviranno a gestire Parma o Palermo, ma per salvare il Paese da una china assai pericolosa di cui forse non ci si rende conto.
L’ottimismo Tremontiano e Berlusconiano non ha più spazi nel convincimento della gente. Ma non dobbiamo cedere però al pessimismo, che ci danneggia nello stesso modo. Occorre un realismo, carico di ideali, una classe dirigente degna di questo nome, formata e non inventata, legata a popolo e territorio e in grado di guidarlo e non solo di seguirlo. La democrazia è il bene più prezioso che abbiamo ma va trattata con grande rispetto e senso di responsabilità.
Bisogna inventare un nuovo futuro, possibile e realistico, bisogna basarlo sull’impegno di ognuno, non sull’astensione. Troppa gente pensa che basta occuparsi degli affari propri e non “perdere tempo con la politica”. Stiamo vedendo con chiarezza che se non ci occupiamo, e seriamente, di politica, sarà la politica ad occuparsi di noi.

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