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Unità, federalismo, demagogia.
Le celebrazioni del 150° anniversario della nascita dello Stato unitario si svolgono in un’atmosfera caratterizzata da un entusiasmo popolare abbastanza diffuso, da una eccessiva prudenza politica dell’area di governo, da un antagonismo rivelatore da parte leghista ed una latente demagogia diffusa che è una nebbia che toglie luminosità alla ricorrenza. Sembra che nonostante tutto gli italiani abbiano presenti le ragioni, il significato, l’importanza della faticosa costruzione dell’unità del nostro Paese, del suo faticoso ma indiscutibile sviluppo, della trasformazione da un popolo di contadini semianalfabeti in una potenza industriale di prima grandezza. Il passaggio tra staterelli e poteri, (basti pensare a quello temporale della Chiesa, a quello borbonico del sud o alla appendice dell’austroungarico al Nord), non è certo stato indolore ed ha corrisposto ad una tendenza storica superiore alla stessa volontà di ogni singola popolazione. Era una tendenza, che segnava la fine delle aggregazioni imperiali e reali, l’avvio ed il consolidamento delle realtà statali in un processo avviato dalla pace di Westfalia nel 1648 ed esploso un po’ ovunque esattamente due secoli dopo. Pur nel quadro generale della più vasta politica europea furono però ben presenti le ansie libertarie, i richiami democratici, la volontà di crescita di preziosi e grandi pensatori, di intellettuali, di patrioti che, con le loro attività, resero più consapevoli ed impegnate più larghe fasce di cittadini. Per capire cosa abbia significato la raggiunta unità italiana basti pensare a cosa sarebbe stata l’Italia se essa non si fosse realizzata: la convivenza di situazioni miserrime, dalla profonda povertà del Veneto a quella della Calabria, dal latifondo cardinalizio degli Stati della Chiesa a quello borbonico e così via. Certo le cose sarebbero cambiate ma con limiti e processi ancora più complessi e drammatici. La consapevolezza dell’importanza della unità non preclude ovviamente la capacità di analisi e di critica degli eventi, una matura riflessione dei limiti e degli eccessi, la valutazione dei vari e variabili obiettivi emergenti prima e durante gli accadimenti politici, militari, sociali, culturali che hanno caratterizzato il processo unitario.
Sembra ora che l’alternativa ideologico politica all’Italia unita sia rappresentata dal cosiddetto federalismo che peraltro aveva caratterizzato il dibattito culturale e politico preunitario ed unitario. Oggi il termine generale sembra caratterizzare il discorso politico in ogni sua formulazione, grazie alla crescita della Lega nord e del leghismo come fatto – si fa per dire – culturale. Un po’ come il berlusconismo. Ma si è dato del federalismo una illustrazione ben diversa è lontana dal suo significato ontologico ed originale. Il federalismo viene infatti confuso con l’autonomia locale, con la sussidiarietà, addirittura con il regionalismo accentratore che già conosciamo. Il federalismo invece è patto tra eguali, tra stati, si esprime nel motto “e pluribus unum” cioè dai più all’uno, è ricerca di una unità più ampia, di uno stato. federale nel quale tutti si riconoscono e al quale si affidano i principali poteri: la moneta, la presenza internazionale e la politica estera, la difesa, l’istruzione di base, la giustizia nei suoi aspetti più significativi e gravi. In sostanza un paese federale è più nazionale di quelli accentrati. Gli Stati Uniti d’America lo testimoniano. In Italia, anche per gli eccessi di un centralismo burocratico e di una differenziato sviluppo economico, il problema si è rovesciato: il nostro “federalismo” tende a dividere, a separare, a rimpicciolire, a localizzare. È divenuto inevitabilmente separatismo, allevando pulsioni egoistiche, timori eccessivi, chiusure al più grande ed al più nuovo. Fa prevalere, come si usa dire, la pancia sul cervello, perché si muove nel brodo di cottura dell’ignoranza egoistica e della demagogia che sono i più forti nemici della democrazia
La demagogia caratterizza, con i suoi gesti e le sue affermazioni e ancor più le negazioni, la cattiva politica e porta con sé addirittura l’alterazione della storia che vuole asservire alle esigenze di potere dal momento. Essa caratterizza e strumentalizza ogni cosa, ogni valore, ogni finalità: liscia il pelo al popolo, gli dice ciò che è più facile da approvare, non lo coinvolge nella serietà della corretta informazione e della ragione. Essa è negativa sia quando esalta l’unità d’Italia in modo acritico ed illusorio, e altrettanto quando nega valori e risultati. Essa la fa da padrona quando il popolo non è maturo, consapevole; quando la classe dirigente politica e di altrettanto basso livello e presa da obiettivi contingenti e spesso poco onorevoli, incapaci di grandi progetti. Nel centocinquantesimo dell’unità italiana dobbiamo chiederci quanta demagogia, in un senso e nell’altro, domini la scena. E cosa rimanga se la si toglie dal nostro ragionamento. Rimarrà una Italia giovane come stato, frutto però di una storia millenaria che ha realizzato, magari solo nelle elite, il senso della identità, della sostanziale unità, della comune cultura, della produzione artistica,scientifica e culturale. Rimarrà un paese dimensionato adeguatamente sulla realtà degli altri grandi paesi europei, Spagna, Francia, Gran Bretagna, Germania, Polonia, Ungheria e via dicendo. Un paese che non ha superato le sue intrinseche contraddizioni, i suoi limiti storici, le sue ataviche difficoltà. E che nonostante tutto, comprese la negatività politiche, economiche e civili del momento, sa ancora, dopo solo sessant’anni dalla fine di una guerra disastrosa, essere considerevole nel contesto internazionale. Disperdiamo dunque la nebbia della truce e sciocca demagogia e riprendiamo il cammino della crescita civile, culturale e morale che poi saprà produrre quella economica che è ben poca cosa senza le precedenti.