Spending review e “benaltrismo”

Detto in inglese sembra meno duro e più elegante, ma potremmo, in buon italiano, chiamare tale operazione revisione della spesa pubblica, dove revisione significa soprattutto riduzione.
È un’operazione difficile, nella quale si unificano e si confondono le realtà del Paese, dei cittadini e della loro classe dirigente, dei loro rappresentanti sindacali e politici.
Siamo nel Paese che vive sui debiti, una montagna di debiti accumulati nel tempo (2000 miliardi di euro) e altri continui, persistenti, gravosi debiti per sopravvivere, per pagare stipendi e pensioni, per andare avanti quando per non indietreggiare.
Ogni sei mesi, più o meno, andiamo in piazza e vendiamo carta, promesse di pagamento, a creditori che -col passare del tempo- credono sempre meno (e vogliono sempre di più) nella nostra capacità di pagare.
Non basteranno a questi cattivoni, le assicurazioni verbali e ancor meno i discorsi sulla solidarietà tra paesi amici e alleati. Chi avrebbe voglia di lavorare per pagare i debiti altrui, i suoi lussi, i suoi sprechi, le sue follie, il malgoverno? Allora dobbiamo ricorrere, ma come? alla revisione della nostra spesa, a pagare i debiti che sono fermi da decenni, a ridurre le spese di una macchina pubblica che costa come quella della Svezia e ci da servizi come l’Egitto. E non è un problema di clima! È proprio qui che scopriamo, riveliamo a noi stessi, la nostra natura.
Critichiamo aspramente, e a ragione, la nostra dirigenza politica ma, come spesso avviene, essa altro non è che lo specchio della classe dirigente della popolazione, o viceversa. Il governo di emergenza ci pare subito cattivo, pessimista, catastrofico, socialmente brutale. Non lo diciamo tutti insieme, ma a gruppi, per categorie, per corporazioni.
Il corporativismo, che fa parte della nostra storia dall’anno 1000 in poi, riemerge.
Il fascismo lo aveva addirittura istituzionalizzato con la carta del lavoro del 1927, trasformando poi la Camera dei deputati, in Camera dei fasci e delle corporazioni. La democrazia post bellica lo ha utilizzato a fini di battaglia politica, coltivatori diretti con la Dc, agricoltori con Pli e destra, CGIL con i comunisti, e via dicendo.
Di fronte ai gravi problemi da esso stesso causati per l’intrinseca debolezza della buona politica, di fronte alla necessità d’intervento e al possibile crollo economico finanziario, il corporativismo si difende, dividendosi strumentalmente e proclamando l’alterità di ognuna delle sue parti.
L’argomento usato è ormai noto: si chiama, con un neologismo brutto ma efficace, il “benaltrismo”. Il governo propone la riduzione dei costi della politica? Ma c’è ben altro da fare rispondono politici e amministratori pubblici. Propone la riduzione ed eliminazione delle inutili province? Ma, c’è ben altro da fare prima di questo! Propone la riduzione della pletora. di dipendenti pubblici e di dirigenti? C’è ben altro rispondono i relativi sindacati.
Il benaltrismo serve per prendere tempo e non fare nulla o poco, per riprendere il solito gioco, e in tempi meno ostici. Non aboliamo le province, vediamo con calma, di ridurle. Le aumenteremo dopo, a bocce ferme, come già si è fatto. I tagli della spesa devono essere selettivi non lineari. Giusto ma entro quanti decenni potremmo licenziare i cattivi dirigenti, i sindaci spreconi, i politici presenti negli enti solo per assumere personale e intrallazzare?
Allora bisogna ricorrere ai tagli lineari: tu ministero, devi dimagrire del 20%: decidi tu cosa tagliare, cosa è meno essenziale,  meno utile. E i ministri, da tagliatori di teste, si trasformano in difensori di testoni, con la scusa del “servizio ai cittadini”. Con l’ovvio accordo dei sindacati, difensori di tutte le cause comodamente popolari, tanto sono pagate dalla collettività.
Il giudizio è ovviamente generalizzato: molti sindacalisti (come molti politici) sono galantuomini che soffrono della situazione e vorrebbero più serietà e meno demagogia, più lavoro e meno apparizioni in tv. Vale anche lì il detto “Senatores boni viri, Senatus mala bestia”.
Così si verifica la perfetta fusione tra il popolo dei beneficati a spese di tutti e della dirigenza sindacal politica che-in cambio di consenso glieli garantisce. Senza responsabilità sulle scelte.
Si sente la mancanza di un giudice terzo, di un controllore. Si cerca di intravvedere, dove sia finita la Corte dei Conti, perché non si controlla,con la responsabilità personale, chiunque maneggi denaro pubblico, direttamente o indirettamente.
E se servono nuove norme, poche ma, efficaci e generali, si facciano. Al posto di tante leggine particolari quanto poco utili. Sembra che, di fronte all’immenso debito pubblico, quasi non affrontabile, il Paese si trovi di fronte ad una grande stanchezza, una sorta di rifiuto, soprattutto in chi deve decidere e sostenere chi vorrebbe decidere. Una stanchezza grande come il debito, che reclama per entrambi, un solidale riposo, un prendere tempo, un attendere: sempre sperando nella fiducia dai creditori.

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1 Response to "Spending review e “benaltrismo”"

  • Gianni Porzi says:
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