La legge di Gresham

Abbiamo detto più volte che non bisogna generalizzare, non fare di tutta l’erba un fascio e ne siamo ancora convinti. La crisi della regione Lazio (vantaggi delle lotte interne, debolezza dei controlli istituzionali!) ci ha dimostrato un malcostume che non immaginavamo, nelle sue forme e nella sua entità. Riflettendoci però pensiamo che una bella indagine sulla Sicilia e la Campania ci illustrerebbe altre forme, più raffinate della “burineria” laziale, ma non meno gravi. E altrove? Dubitiamo che ci siano eccezioni, anche se gli utilizzi dei soldi di Pantalone, il simbolo dell’Italia di oggi, saranno magari meno volgari che non l’uso di ostriche e champagne. Certo, ma con molta prudenza speriamo non sia proprio così.
Quando si fecero le regioni si sperava in qualcos’altro, di più vicino popolo della lontana Roma, di attività non burocratico amministrative ma solo legislative, per togliere sovraccarico al Parlamento nazionale; di una rappresentanza più ampia e solida delle già allora abolende province che ci ritroveremo ancora, zombies delle precedenti, speranzose ed in attesa di rinascere. E tante altre non mantenute promesse.
Fu la Lega a parlare di federalismo dando l’idea di federazione di Stati (magari pronti alla secessione); fu Berlusconi ad accettare, dopo il tradimento del ‘94, l’accordo strategico, l’abbraccio mortale che ci ha portato fin qui. La Lega, affermando di essere uno Stato del nord, addirittura stava creando una sua “zecca” con riserve di barre d’oro, brillanti, immobili, valuta estera, magari africana.
Quante cose si sapevano nei quartieri alti e tra gli stessi leghisti più attenti ed onesti. Ora sembra di scoprire di tutto: di Lusi che si fregava i soldi della eredità alla defunta “margherita”, dei maneggi del tremontiano  on. Milanese del PDL, dell’on. Papa, pare appassionato di Rolex, belle auto ed oggetti preziosi, di Belsito, Bancomat della famiglia Bossi, del cerchio magico e di se stesso, ed ora di Fiorito (PDL) che, con i soldi pubblici, consentiva a sé e ai suoi consiglieri di ripristinare le glorie della dolce vita felliniana e i fasti delle feste imperiali.
La signora Polverini, governatrice della regione Lazio, afferma di non aver saputo, neppure intuito, né immaginato. Come tutti gli altri leaders ignorava i comportamenti dei suoi consiglieri, e forse è,almeno parzialmente, vero. Dopo avere minacciato le dimissioni e di mandare a casa il suo consiglio di “epicurei” (con il rispetto per il vero Epicuro), dopo un colloquio con Berlusconi, aveva cambiato idea, certo in nome di più alti ideali, che il capo le avrà prospettato e forse promesso per il futuro. Ma, dopo le dimissioni di mezzo consiglio, ci ha ripensato e, con un sussulto di orgoglio, si è dimessa, mandando tutti a casa.
La Polverini, pur con molti errori tattici ci è sempre apparsa come una persona perbene, degna del suo ruolo, ci aspettavamo che non rinunciasse a difendere la sua immagine,a dare un segno forte di moralità politica ed un esempio duro di coerenza ai suoi elettori e a quelli di altre regioni. Un po’ tardi ma l’ha fatto e lo apprezziamo, come per altri, più modesti, che hanno rinunciato alle lusinghe del potere ed hanno pagato di persona una onesta rivolta civile.
Scriveva il grande Alfredo Oriani nel suo antico, splendido libro “La rivolta ideale” che “in una civiltà maturata … apparvero le vere aristocrazie politiche …nobilitate dalla responsabilità di un potere, che sollevava i loro individui al di sopra di sé medesimi e, nella rivalità, perfezionava le forme più originali del carattere civile. Atene e Venezia, Roma e Londra ebbero lungamente nei Senati le più magnifiche assemblee umane e videro sorgere i modelli immortali dell’eloquenza e del pensiero politico … e la loro essenza era nel carattere e la virtù nel sacrificio”.Essenza e virtù che vorremmo vedere almeno in una parte della classe dirigente del nostro Paese, ma è troppo tempo che ce lo aspettiamo.
Non avremmo avuto delusioni se non fosse avvenuto per tanti altri esponenti di questa nuova aristocrazia (ma è meglio dire oligarchia) del potere, frutto di compromessi, di stretti rapporti con il denaro, spesso di corruzione degli stessi propri proclamati quanto formali ideali.
Ancora con Oriani e la sua “Rivolta ideale” “ è necessaria dunque un’alta aristocrazia che, esprimendo le più alte differenze, risolva la equazione di tutte le altre” e richiama all’antica formazione del carattere morale che si imponga alla incoscienza volgare, corrotta, edonistica, senza amore per il proprio Paese né rispetto per la propria funzione.
Oggi l’aristocrazia (governo dei migliori) è sostituita da una falsa democrazia (governo del popolo) divenuta in realtà partitocrazia, che però esprime troppo spesso gente inadeguata ed anche peggio. Può il popolo, democraticamente, riuscire ad esprimere una sua aristocrazia, i cui titoli non siano quelli familiari o nobiliari ma quelli della formazione, della conoscenza, della cultura, dell’onestà, della capacità di rappresentanza e difesa del collettivo interesse?
C’è una legge in economia che afferma “ la moneta cattiva scaccia la buona”. Fu elaborata da Sir Thomas Gresham , economista, imprenditore, consigliere finanziario della regina Elisabetta 1a. E’ una legge che vale anche nel vivere comune e nella politica come anche nell’etica. Questa norma  è andata e va sempre più prevalendo, i peggiori cacciano i migliori,  le loro proposte sono più allettanti, più semplici, più gradevoli per il popolo, più false. I risultati si vedranno poi e, come sta accadendo, li paghiamo e pagheremo sempre di più.
È possibile invertire democraticamente la tendenza, andare verso una faticosa ma  utile serietà, responsabile e veritiera, verso una classe dirigente degna di questo nome? Ci limiteremo alle chiacchiere, agli insulti, alle promesse inutili, alle battute salaci? Affronteremo il tragico con il comico?.
Dobbiamo confessare che il pessimismo ci tenta, ma la speranza, che postula l’impegno, è d’obbligo.

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Quos Deus vult perdere, dementat

Le elezioni si avvicinano, come data, ma sembrano molto lontane nelle azioni e nei comportamenti. Hanno effetto di deterrenza sui protagonisti, su quelli che ritengono di parteciparvi più con paura che con gioia e speranza, sanno che, sui partiti e i loro uomini, anche con cattiva generalizzazione, sta tornando l’antico detto, un tempo rivolto altrove, “il più pulito ha la rogna”, e, questo drammatico e forse ingiusto giudizio, rende ancor più forte il timore della scadenza, che tutti dichiarano di volere (fermare la “sospensione” della democrazia)! Ben sapendo che, il Paese non vede in questo Parlamento, in questa troppo sperimentata classe politica “da ventennio”, alcun segno di vissuta democrazia. Questa paura delle elezioni è un sintomo grave di colpa, di ritardata consapevolezza, di responsabilità rifiutata; si verifica dunque una confusione e una totale incapacità di decidere. Anche nel proprio interesse.
Un antichissimo detto, pare di origine greca, ma poi tradotto in latino afferma “Quos Deus vult perdere, dementat” (a coloro che Dio vuole colpire, perdere, toglie il senno). È stato usato da qualche scrittore quando Berlusconi sembrava, con atteggiamenti personali e teoricamente privati, aver perso la testa. Oggi mi pare idonea a tutta la classe politica, divisa in tutto, salvo votare, per fortuna, i decreti di Monti, criticandoli subito dopo.
La visione di presunti interessi elettorali, tutti da verificare, porta i “leaders” politici a discutere di tutto e realizzare niente.
Non vediamo prospettive sulla conclamata legge elettorale e ci aspettiamo, con poche modifiche, una riedizione corretta, ma assai poco, del “porcellum”; non vediamo una forte e severa legge anticorruzione (da limare per salvare gli amici pregiudicati); non si parla di riduzione dei parlamentari e di riforma del sistema, si è fermata l’abolizione delle province, e potremmo andare molto, molto avanti.
Così non resta che “subire” con rassegnazione la visione di una Italia “legittimamente” corrotta, attenta a presunte esigenze politiche dei potenti e disinteressata alla sofferenza dei poveri e dei deboli. In mano alle decisioni di pochissimi potenti che abusano del denaro e del potere di tutti cittadini; che governano nella logica dei propri privati interessi, che si fanno leggi e leggine ad personam, ad categoriam, ad mentum. Sembrano sostenere che il Paese possa permettersi questo e altro.
La politica, quella alta, onesta, al servizio del popolo sembra non esserci più, e forse abbiamo abituato il popolo a non sentirne la mancanza, a non pretendere una classe dirigente onesta, responsabile; a sopportare condannati e condannandi nelle cariche dello Stato, nei partiti, a decidere, aumentando, con la defezione tranquilla della moralità, la già grave crisi politica ed economica del Paese.
Stiamo giocandoci la democrazia, la fiducia nel diritto, nella giustizia, la classe dirigente come riferimento di rappresentanza, di onestà sostanziale e non formale, i partiti come strumenti di partecipazione politica. Ci stiamo giocando il Paese, il ruolo di controllo delle istituzioni, della stessa magistratura anche quella contabile e amministrativa.
Quasi vent’anni fa abbiamo creduto nella rivoluzione berlusconiana, ci siamo impegnati, pur con i limiti di ognuno, per costruire quel Paese nuovo che ci era stato proposto con entusiasmo e fantasia. Gran parte di Italia ci ha creduto e lo abbiamo sostenuto, partecipato, vissuto. Dopo quasi venti anni è crollato un po’ tutto, ed in più abbiamo una situazione economica e finanziaria di origine internazionale che però abbiamo sottovalutato per lungo tempo. Di fronte a quanto avviene, non sappiamo se sia più grave la crisi economica o quella morale e politica, o se sia una crisi sola, di Paese, che tutto coinvolge in una frana dove poco si salva.
Nonostante il governo Monti – sussulto di dignità di un Paese e merito di Napolitano – il Paese dà gravi segni di abbattimento. Sembra che l’unico esempio di dignità e di coraggio venga dalle zone terremotate, dalla gente comune, da imprenditori seri, da amministratori corretti, impegnati – nella disgrazia- vicini al loro popolo. Non ci sono come avveniva un tempo, uomini di partito a dare solidarietà. Forse sentono la vergogna e temono il biasismo silenzioso. C’è quasi paura a dire “andiamo alle elezioni” perché saranno anch’esse frutto di questa classe dirigente, delle transazioni “commerciali” tra Berlusconi e Bersani, sulla legge elettorale. Gli italiani si stanno dimostrando tolleranti pazienti. Ma vanno temuti. Un detto inglese ricorda “Fear the wrath of the pacific”. (Temi l’ira del pacifico). Può esplodere più dura, feroce e motivata, e gli italiani, quando esplodono, possono essere almeno come i francesi della rivoluzione. Anche se i tempi sono mutati.

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Caro amico

mi giungono commenti e post per il blog che nulla hanno a che vedere con l’argomento cui affermano di riferirsi (in una vengo accusato di non essere un vero ambulante!! In un’altra che sono un cattivo medico!) altre sono con  lunghezze eccessive, (2-3 volte il mio stesso post). Gradisco molto risposte e contestazioni, ma i miei post sono tematici, cercano di stimolare la riflessione e il dibattito. Per questo pubblico volentieri quelli attinenti al tema da me trattato (ovviamente con tutte le sue possibili connessioni) e non pubblico quelle che non c’entrano. Naturalmente sono anche interessato ai temi nuovi, ad argomenti di effettivo interesse. Sempre tutto con le regole della buona educazione e del rispetto per tutti, che non escludono critiche severe e anche profondi dissensi. Pensò che Internet sia molto importante e che i social network assai preziosi, soprattutto se servono per colloquiare ma non volendosi sostituire al mitico bar sport, dove tutto è concesso.
Grazie per la tua cortese attenzione. Aventino Frau

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Tra promesse e vergogne

Il periodo feriale tende a rigenerare corpo e spirito. Ci dà la sensazione di una pausa che precede qualcosa di meglio, di più affrontabile, con più forza ed energia. La delusione c’è sempre, in genere rappresentata da decisioni su prezzi e tariffe, da un aumento delle nostre difficoltà. Durante la pausa estiva il gran caldo ci ha fatto dimenticare lo stato della situazione, pur se è visibile da molti segni inequivocabili di crisi. Ma, appena finita la stagione, eccoci già in mezzo al dramma, che gli italiani tendono sempre di rimuovere, di dimenticare con una grande capacità di riuscirci. Consentendo, con la non memoria, di vedere ogni cosa senza passato, ogni colpa senza responsabilità e senza pena. Ogni colpevole, con rinnovata verginità, pronto a nuovi ruoli che, naturalmente, guardano al futuro, non al dimenticato passato. Sanno che siamo quasi tutti così, capace di dimenticare, di ignorare, di non trarre mai lezioni dal passato, utili per i nostri comportamenti, per le nostre scelte, per il voto che andremo ad esprimere, quando ci andremo e per chi ci andrà.
A metà settembre ci accolgono tre notizie, tutte di notevole entità, non sappiamo dire quale sia la più pesante.
.     Marchionne smentisce un impegno, e sembra voler annunziare, ed è già un inizio di annuncio, la fine anticipata di “fabbrica in Italia”, la grande promessa sulla quale  una ventina di mesi fa, richiese la speranza e la fiducia ai lavoratori del gruppo Fiat, spaccò quel poco di unità sindacale rimasta, criticò tutta la dirigenza politica italiana, incapace di prendere impegni seri e di mantenerli, si propose come salvatore dell’industria automobilistica partendo da Fiat e Chrysler.
.    Berlusconi conferma e rinnova un impegno, lasciando intendere di candidarsi per dargli attuazione: quell’impegno che dura dal ‘94 e che ha segnato 18 anni di politica italiana (quasi il ventennio mussoliniano). In tutto questo periodo non si è realizzato granché e i più incattiviti sono proprio quelli che ci avevano creduto e si erano spesi per questo. Naturalmente la speranza è che -facendo di Monti il bersaglio di ogni critica sul non fatto o fatto male, in poco più di un anno, – (pur votato anche dal PdL)- si dimentichino i quasi vent’anni passati invano.
.    Dal Lazio giunge un’ulteriore conferma che il Paese, il nostro Paese, è governato -pare ovunque- da gente che meriterebbe ben altri ruoli. Dopo Lusi (Margherita) e Belsito (Lega) ecco Fiorito ( PdL) che ci indica come si spendono non solo i soldi dei partiti, ma anche dei gruppi politici regionali, quelli dei cittadini italiani, quelli che faticano la vita, che pagano le tasse, che non vanno nei ristoranti di lusso non comprano diamanti e barre doro, che onestamente portano avanti le loro famiglie.
Tre eventi dunque: uno per annullare le promesse che erano state fatte, l’altro per riproporre promesse non mantenute, il terzo per confermare uno stato di corruzione morale, di inadeguatezza alla fiducia dei cittadini, che si indica la situazione del Paese.
Potrà, su queste gravi situazioni, prevalere, per farcele dimenticare, la capacità della campagna elettorale, la fiera delle bugie, con i suoi slogan, le sue immagini, i soldi che la finanziano, le TV ed i giornali (sempre più la voce del padrone) essere più forte della memoria dei fatti e dei responsabili?
Saprà la gente cogliere la differenza tra i costi della politica e quelli dei falsi politici che abusano del Paese che dovrebbero amare, valutare i partiti che non promuovono e non consentono leggi idonee, per controllare il corretto uso del denaro pubblico e quindi meritano di non avere alcun pubblico finanziamento? Né a livello di Stato, né di regioni, né di comuni.
Tutti sappiamo che in politica e nelle istituzioni ci sono un sacco di persone per bene, che sono la maggioranza: in Parlamento come in tutte le istituzioni. Ma, nelle posizioni di forza dei partiti e quindi troppo spesso nel Paese, dove si manovrano i soldi e il potere, ci vanno troppo spesso i furbi, i ladroni, i corrotti e i corruttibili. Gli altri, gli onesti devono fare “i peones”, spesso più bravi dei primi, dare credibilità con la propria faccia ai partiti e consentire loro di fare eleggere anche fior di mascalzoni.
Dobbiamo però chiederci perché siamo giunti a tutto ciò, se il male non sia allora più esterno, se non vi sia una metastasi che invade tutto il corpo del Paese. Bisogna partire da lì, colpire duro, ripristinare etica e legalità.  Questo non si fa ritardando sine die le leggi anticorruzione e volendo leggi elettorali dove il denaro determina le scelte (l’acquisto di preferenze), o non volendo controlli esterni sulle spese dei gruppi parlamentari.
Bisogna che i cittadini si sentano elettori di buona memoria e puniscano i partiti che ospitano uomini indegni del ruolo istituzionale, politico, amministrativo. I cittadini hanno poco potere, salvo che nei momenti elettorali, se lo sprecano o lo usano male non potranno poi lamentarsene.

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Lo spread tra delitto e castigo – Ezio Zadra

Troppo impegnati a seguire quello sui bond ,sopratutto da parte di chi ha imparato ieri questi termini e li usa un po’ come le notizie meteo, stiamo perdendo di vista una cosa che ci tocca tutti, chi prima e chi dopo.
È ‘ noto che non vedi od incontri più vigili urbani, poliziotti o carabinieri camminando per le città. Sono tutti nascosti, la maggior parte, dentro auto di servizio, intenti a colpire gli automobilisti per divieti di posteggio, cioè per far cassa al Comune. È noto che nessuno bada più ai ciclisti che si sono impossessati dei marciapiedi e delle stradine di montagna. I pedoni, al riguardo, vorrebbero solo essere avvisati con un segnalino acustico ma a loro volta per l’onore della categoria, si guardano bene dall’attraversare la strada sulle zebre: devo andare al di là e ci vado, dovunque sia. Vengono così abbandonate le strisce tanto è vero che sono moltissimi i casi di investimento sulle zebre perché, per il mancato uso, ne è stato perso il senso.
Lo stupro di gruppo appare meno grave di quello singolo,come sembra dire addirittura la Corte di Cassazione.
L’aver controllato e filmato il mascalzone, che prende la pensione da invalido totale in quanto cieco, e mentre guida l’auto od il motorino, e fa le spese controllando le scadenze dei prodotti, raschia il gratta e vinci ed è titolare di patente senza neppure l’obbligo di occhiali, da qualche magistrato – ed è notizia di questi giorni – non appaiono allo stesso ragioni sufficienti per revocare la pensione di invalidità e magari condannare il farabutto. Ma fa pubblicità al giudice!
Il colpevole, condannato, di sei omicidi e che nella mente popolare dovrebbe avere sei ergastoli, avanza istanza di libertà dopo venti anni di carcere e subito si forma il circolo di sostegno con il motto “nessuno uccida Caino”. Forse sarà anche giusto, ma Abele, chi lo difende?
Si riaprono processi archiviati venti anni fa e si aggiungono come attività straordinaria alla magistratura mentre questa non è in grado di emettere sentenze prima di dieci anni nell’attività ordinaria.
Rientra in Italia una persona rapita da qualche gruppo terrorista all’estero e deve andare prima dai P.M. e non a casa sua. Ma non è il soggetto offeso? Cosa succede se ci va il giorno dopo?
Rientra un soldato ucciso in un attentato e qualcuno ordina subito l’autopsia. Ripeto: di un soldato morto al fronte. E se scoppia una guerra come facciamo? Deduco che potrei richiedere la riapertura del caso di quattro miei parenti morti durante l’ultima guerra mondiale senza che sia stata chiarita con esattezza l’ora della morte e questo potrebbe aver causato delle ingiustizie nella successione legittima.  Perché no? Tanto non costa nulla a me, ma solo allo Stato e far comodo a qualcuno che veda in questo un’opportunità per farsi della pubblicità..
Se entra un ladro in casa e minaccia la moglie tenendola sotto il tiro di una matita appuntita ed appoggiata al suo collo in modo che se esercita pressione le trapassa la carotide e tu gli spari con la pistola regolarmente denunciata e per la quale fai semestralmente le visite al campo di tiro, apriti cielo! L’eccesso di difesa è il minimo che ti prendi. Il poverino è quello che si è introdotto in casa tua e che minaccia te od i tuoi cari!
Così è per i negozianti. Di certo non siamo negli Usa dove non devi neppure chiudere a chiave la macchina e dove – se uno entra in casa tua è la sua violenza e la sua violazione della tua privacy che ti mette dalla parte del diritto di difenderti. No! Non qui! Tu sei un latino, vieni dalla patria del diritto. Tu devi essere equo e ponderato. L’altro, l’aggressore, si è studiato il colpo ed ha previsto ogni momento. Tu vieni svegliato nel sonno, spaventato, ma per il giudice devi essere subito  calmo, saggio, fresco e pronto a limitare la tua difesa, magari solo con un buffetto sulla guancia dell’importuno. Altrimenti sei tu responsabile di eccesso di difesa.
Se invece sei buono e bravo ed il giorno dopo ti presenti alla polizia o dai carabinieri per denunciare il furto, vedi un’aria di rassegnata sufficienza del funzionario che ti ascolta spesso gentilmente, che poi chiama un sottoposto per l’assunzione del verbale ed a mo’ di consolazione ti dice: detti il verbale. Lei è il settantaseiesimo di questo mese, cosa vuole, sono bande organizzate. Ormai quello che le hanno rubato sari già all’estero. Ringrazi Dio che non le hanno fatto del male.
Questo mi sta bene se chi lo dice è il mio amico Beppe all’osteria ma non mi va neppure un po’ se proviene da un’Autorità di polizia.
Tutto questo mi da la sensazione di un continuo allontanarsi della esistenza della pena rispetto a quella del reato.
Ed è da tempo che è così! È da troppo tempo che lo spread tra delitto e castigo continua ad aumentare con la riduzione dei controlli e delle pene, ridotte anche dopo essere state comminate, e quindi allontanando sempre più quel rapporto che deve esserci tra i due momenti e senza il quale chi subisce non è tutelato.
Dobbiamo salvare Caino?
Se ci vogliamo ricordare che Caino fu condannato ad errare, maledetto, su tutta la terra e però se ci sentiamo più grandi e più giusti dello stesso giudizio di Dio … allora subiamo di buon grado tutto quello che ho scritto finora, lieti di non essere noi stessi condannati per non averlo capito prima.

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Tra soldi e democrazia

L’ennesimo incontro tra la Cancelliera Merkel e il presidente Monti ha degli aspetti di tipo “sentimentale”: c’è il corteggiamento, il lungo colloquio, il sereno convincimento, la diffidenza della corteggiata, un casto abbraccio finale, (L’epoca “erotica” di Silvio è terminata), ma senza concessioni, con la promessa di rivedersi presto, senza fretta, come dice la pubblicità di un liquore al limone.
Era già avvenuto in un incontro a Bruxelles e Monti aveva chiesto di creare il fondo salva stati, ovviamente per tutti ma soprattutto per Italia e Spagna, i più in difficoltà. Allora Angela aveva un po’ ceduto, accondisceso alla richiesta del “corteggiator cortese” più credibile del suo predecessore. Poi però, nonostante il gentil consenso della signora, il professore ha dichiarato di essere grato della disponibilità ma non avere intenzione di usare il fondo euro tedesco. Chissà mai perché.
Il galante e bisognoso signore italiano ci ha ripensato e, sempre nella parafrasi sentimentale, ha immaginato un futuro con Angela Merkel, più disponibile alla comprensione ma sorvegliata da feroci parenti in toga rossa, e lui stesso controllato da una troika arcigna e severa che chiede conto di tutto e inoltre con tutta la parentela tedesca di Angela che lo considera uno squattrinato che vuole sposare la ricca signora che, per sentimento, è disposta ad accettare.
Di fronte a questa immagine poco romantica il nostro Monti ha visto i limiti dell’operazione, ha capito tutto, i controlli, le riserve, i debiti ed ha anche immaginato la protesta della sua famiglia, quella italiana, spendacciona, irresponsabile, già costretta dai sacrifici dell’obbligatorio risparmio, è molto stanca di differenze interne, intrafamiliari tra gli italiani troppo ricchi e quelli troppo poveri. No, la famiglia non avrebbe accettato un matrimonio così strano e molto costoso, dove per un sacco di anni e senza possibilità di divorzio, si dovrà tirare la cinghia in modo molto stretto. Per colpa nostra, per carità! Ma, non solo. Con l’euro c’è chi ci ha guadagnato e chi ci ha perso e la Germania, più diligente e severa di noi, ci ha guadagnato e ci guadagna.
Certo i debiti vanno pagati altrimenti le conseguenze sono terribili e noi abbiamo già deciso di pagarli. Così hanno deliberato Governo e il Parlamento anche se pochi, in famiglia, se ne sono accorti. Ma dare al Paese un’immagine greca è troppo.
La Grecia, dove 2500 anni fa, prima dell’esistenza di Roma, nacque niente meno che la democrazia, ora assiste a un Parlamento eletto, ma totalmente dipendente da altri che potremmo chiamare stranieri ma anche solo creditori. I Greci guardano con tristezza il Partenone, simbolo della democrazia ateniese, che domina dall’alto l’attuale Parlamento greco, e lo sentono scricchiolare, tremare, venir meno dopo più di 2000 anni di resistenza a greci, cristiani, musulmani e, alle cannonate veneziane del 1687 che lo fecero quasi crollare. Già, cosa sta diventando la democrazia e non solo in Grecia? C’è chi teme e giustamente, che la potremmo ritrovare nelle voci della contabilità di Stati, quelli debitori cioè quasi tutti.
La democrazia è la voce legittima dei popoli contro il capitalismo di pochi, di persone addirittura, truccate con le vesti del mercato. Non dunque sotto il dominio di altri Stati ma sotto quello di una entità egoista e crudele, inumana nei suoi stessi comportamenti umani, che i popoli dovrebbero combattere proprio con i valori della democrazia che rischia di essere negata, ridotta a pura forma, alibi di un potere assoluto. Vogliamo pensare che il presidente Monti rifletta su tutto ciò e ne tragga sagge valutazioni. Ma che ci pensino anche gli italiani, valutino il peso ma anche il valore dei sacrifici richiesti e pensino che l’irresponsabilità dei governanti che ci ha indebitato fuori misura è anche nostra, delle nostre pretese, del fatto che gli abbiamo eletti noi stessi, pur se condizionati e convinti dagli eventi e dalle loro facili parole. Tocca sempre a noi il duro compito di esprimere o confermare persone capaci di salvare la barca che affonda e di cambiare la rotta, per mantenere occhi e speranze su quel Partenone, sulla cima dell’Acropoli, che rappresenta da tanti secoli quella democrazia, sempre difficile da praticare ma sempre migliore di qualsiasi dura o mite forma di dittatura.

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Il “quid” che manca

I sondaggi, con i limiti che possono avere, ci indicano ancora una forte propensione all’astensionismo, una tendenza rilevante al “grillismo”, anch’esso una forma di protesta, e la grave crisi di tutto quel mondo moderato che aveva creduto o si era illuso di credere, nella grande proposta liberal democratica di Berlusconi.
Siamo alla fine della strana esperienza della seconda Repubblica che, cattiva erede della prima, ha però realizzato significativi cambiamenti nella stessa strutturazione politica, nella logica del confronto trasformato quasi in scontro personale, nella totale, assordante, monopolizzante, presenza del leader, padrone del partito, di ogni partito.
Mauro Calise, docente di scienza politica alla Federico II° e grande esperto del “partito personale” ha teorizzato con grande serietà, questa svolta della politica italiana, come fenomeno che in questi vent’anni ha segnato il Paese.
Ora, in questa fase delicata del governo Monti, si ripropone il problema del futuro con le prossime elezioni politiche e dopo le amministrative scorse, che hanno dato precisi segnali di movimento della base elettorale, di forte utilizzo degli strumenti legati a internet e ai social networks, e, con Grillo, di nuovi meccanismi di comunicazione e di critica politica.
Gli elettori più attenti, oggi si guardano attorno, spinti anche da preoccupazione e paura, e cercano di capire, di immaginare a chi rivolgersi, a quale personalità capace di dare una fiduciosa prospettiva.
Cercano un leader non un partito: così è ormai abituata la gente, dopo un lungo periodo populista, deludente e personalizzato, dove le stesse delusioni riguardano la capacità o meno dei leaders, di dare risposte adeguate alla domanda politica, spesso confusa ma pressante del Paese.
I leaders presenti sulla piazza, più che capi politici, sono i veri padroni dei partiti, simboli grafici essi stessi, icone che però sono ormai adorate dai soli sacerdoti, (i loro ufficiali) del tempio. non dai fedeli della comunità.
Un leader vero per il Paese non si trova, e, se guardiamo alla vita della seconda Repubblica, l’ultimo ventennio, abbiamo visto tanti party owners, e ben pochi political leaders. Tutti costruttori di partiti personali, da Berlusconi a Dini, D’Antoni, Miccichè e Lombardo, e Mastella, Casini, Fini, Vendola, Di Pietro. Anche Bersani, che però è espressione di un partito, il PD, che non si può definire personale se non per le numerose personalità che si affrontano all’interno. Beppe Grillo è l’estremizzazione che realizza il partito dell’one man show, unico attore in scena con platea piena e programma a soggetto.
La crisi, politica e personale, di Berlusconi lascia certamente nei maggiori guai il centro destra, e un rientro formale dell’ex Presidente del Consiglio, aumenta i guai stessi e li rende più pesanti.
 Gli italiani cercano un uomo di cui fidarsi, cui affidare la grave situazione.
C’è Monti, ma che è un Presidente più che un leader politico; egli promette una prospettiva ma chiede, come Wiston Churchill agli inglesi, lacrime e sangue.  La situazione è assai diversa: Churchill aveva di fronte Hitler, Monti la Merckel. Ogni tempo ha i suoi eroi, anche se la guerra economica rischia di fare danni quasi come quella militare.
Berlusconi ha fatto eleggere, con largo applauso ma senza voti, Angelino Alfano, come Segretario del PdL. Ma qualche tempo dopo si è accorto che gli mancava un “quid” che è quel qualcosa che caratterizza un leader, e ora valuta se tornare in campo. Egli sa che l’area moderata di centro destra, quel che resta della vecchia Forza Italia e del ceto moderato del Paese, cerca disperatamente un leader con il quid, ma non lo rimpiange perché di quid ne aveva e ne ha obiettivamente troppo.
Può il Centro destro riaggregare elettori, anche disaggregandosi per abbandonare quel che resta di Alleanza Nazionale e quel che resterà di una Lega che vorrebbe rimanere al potere? Non sembra sia così facile.
Mentre i partiti “tradizionali” si mettono d’accordo,facendo immaginare al Paese riforme utili ai cittadini, anche se fatte solo per il loro esclusivo interesse elettorale, occorre ora qualcosa di nuovo, di popolare, espressione più reale del Paese, capace di dare fiducia e ottenere consenso. L’emergere di un leader verrebbe di conseguenza.
Se non avvenisse, trovandoci tra Grillo e Monti, vorremmo che quest’ultimo, evidenziando il quid necessario che in realtà sembra avere, fosse dotato di un sostegno politico capace di dare forza al Governo e non solo svogliati voti di fiducia in Parlamento.

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Abuso di internet

Non sono un esperto di computer e delle varie articolazioni di Internet, i vari face book e i social network. Mi limito a scrivere delle note che mia moglie trasforma in post. E chi mi vuole leggere può farlo. Ricevo però di conseguenza varie mail con commenti, con altri articoletti, con note e divagazioni sul tema.
Alcune serie e documentate, altre, le più, quelle più dense di arroganti affermazioni, che sono frutto di qualche casuale ricerca su Internet o WiKipedia , ma sono solo citate o riferite, senza basi analitiche e culturali dell’autore, ma solo come frutto inconsapevole di Google.
È triste constatare come l’uso di uno strumento così eccezionale per velocità di ricerca e per ampiezza di memoria, venga utilizzato per sparare giudizi senza riflessione, né conoscenza, né cultura su ciò di cui si parla. Non basta estrapolare mezza frase o anche una sola nota, senza inserirla nel contesto storico, culturale, delle vicende, per sparare giudizi saccenti su personaggi che hanno magari determinato parti della nostra storia.
Un mio maestro, grande avvocato, diceva “non c’è di peggio di un ignorante che si mette la toga, figuratevi che drammatico processo”. Questi scrittori ignorano la frase di Voltaire “di quell’uomo datemi solo una frase staccata dal contesto e lo farò impiccare”. Già, il contesto, il mare più grande dove si muove l’onda. È il mare che va conosciuto ed è cultura è conoscenza che ci danno la capacità di comprenderne il moto, non solo quello di un’onda.

 

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Povera Minetti

Nicole Minetti, la bella consigliera regionale della Lombardia, è stata eletta nel listino bloccato del presidente Formigoni, in una posizione quindi che non richiede neppure la campagna elettorale e che dovrebbe appunto essere riservata a personalità di grande impatto tecnico, scientifico, culturale anche se di scarso appeal preferenziale. Sono i bravi sconosciuti o quasi agli elettori ma preziosi per il Paese. La Minetti è stata considerata così, come del resto un esperto di massaggi di provenienza milanista. È la politica di questo ventennio e quei posti in lista li decidono i capi supremi, i capi di partito: in questo caso Berlusconi, Bossi e Formigoni che l’ha accettata.
La Minetti, e non certo per meriti politici, era nella elite  del Pdl, doveva collocarsi nella sua parte migliore, anche nell’elezione della più importante regione italiana. Lo sapevano tutti che difettava di meriti politici, così come sapevano che abbondava di meriti estetici, organizzativi, di presenza, e di rappresentanza della “bon vivre” tanto che organizzava e partecipava alle cene eleganti di Arcore, cosa non certo consentita a tanti politici, ma solo politici, pur se seri e preparati, dallo stesso partito.
Per un eccesso di “bon vivre”, si ritrova sotto processo, assieme a Gustavo Selva e allo stesso Berlusconi, per le cene del bunga bunga e corollari vari. Selva è stato dimesso da direttore del Tg4, alla Minetti viene chiesto, non potendo scacciarla dalla istituzione regionale, di dimettersi. Berlusconi annuncia di ripresentarsi per la Presidenza del Consiglio, rinnovato e forte di una significativa epurazione.
Non possiamo immaginare quanto sia vasta la ripulitura del partito che cambierà nome, ancora una volta, forse tornando a quello originario di Forza Italia, suscitatore di tante speranze ed entusiasmi. Così, nel quadro della ricerca di nuova verginità, si chiedono, si vogliono, le dimissioni della bella Nicole. In testa ai richiedenti c’è il segretario Alfano, peraltro anch’esso nominato, e tanti altri politici, dalla Santanchè a Cicchitto, che, poveri, non sapevano che lo stesso metodo aveva promosso agli alti gradi della politica, tante belle e generose fanciulle. Non erano tutte imputabili a Berlusconi, ma molte ai suoi scherani che, giustamente, non erano da meno in amiche, amanti, compagne di provincia. Todos Caballeros!
Del resto grandi doti politiche non erano certo richieste a tanti ometti, sempre pronti a non dire di no. La regola in fondo è la stessa, applicata ai ruoli diversi. Ora vogliono che la Minetti si ritiri e certo non sono così ingenui da pensare che lo faccia gratuitamente, pensando così di far dimenticare la sua presenza. Illusione e ingiustizia, perché la Minetti e tante altre probabilmente, è una eletta incolpevole, quel ruolo le è stato dato , e lei è più sfortunata di altre che non sono state bersagliate dalla magistratura.
Dentro Forza Italia c’erano un sacco di persone perbene, molti parlamentari validissimi, gente di cultura e di esperienza. Ma chi contava erano pochi, fisicamente vicini al trono, e non sempre erano i migliori. Inoltre, in genere, i mediocri si circondano di personaggi che sono loro inferiori e il processo degenera sempre più. Così si è giunti a situazioni che, non fossero drammatiche, sarebbero ridicole.
Non bastano le dimissioni della Minetti, e anche di tante e tanti altri, per salvare, come dice Berlusconi, vent’anni di lavoro per costruire il centro destra in Italia. Non basterà neanche la sua presenza fisica. Il passato, nel bene ma soprattutto nel male, non è cancellabile, qualcuno lo ricorda sempre. Come disse John Kennedy”… Si può ingannare tutti una volta, qualcuno qualche volta, mai tutti per sempre“. Molti esponenti del Pdl dovrebbero ricordarlo, salvo ingannare sé stessi prima ancora che tutti gli altri.

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Sicilia come metafora

Non credo che l’annuncio di un possibile default della regione Sicilia abbia credibilmente stupito qualcuno. Il fallimento economico della regione è la logica conseguenza di un lento e inesorabile fallimento politico e in larga misura culturale; il fallimento di un modo di essere. Infatti, esso è senza colori, di destra, di centro, di sinistra. Tutti egualmente responsabili, pro quota e pro tempore, di un’irresponsabilità organica, di un malgoverno portato a sistema, e quasi giustificato dalla stessa opinione pubblica siciliana; di una classe dirigente non solo politica, brava nello spendere a iosa e male i soldi dello Stato, oltre ai propri, quanto incapace di utilizzare quelli legittimi (ma ben più controllati) dell’Unione Europea, che sono peraltro anch’essi italiani. Di fronte a questo stato di cose, non basta annunciare le dimissioni del presidente della regione ma fare una profonda analisi sullo stato della situazione e attuare una vera rivoluzione metodologica, di classe dirigente, di chiamata di responsabilità. L’ultimo ex presidente della regione Sicilia sta in galera, ma con lui dovrebbe esserci una bella fetta di uomini politici, non per gli stessi reati, ma per quello, ben più grave, di incapacità e abuso di governo. L’autonomia siciliana, e forse non solo quella, rappresenta l’alibi di quella terra e di quel popolo. È il mito che tutto giustifica, che tutto gestisce, che unisce i valori di belle intelligenze alla demagogia di populisti capaci di corruttela ed anche di mafia. L’autonomia speciale ha dato ampio spazio a una politica anch’essa “speciale”, autoreferente, incapace di autocritica, di responsabilità del dirigente che l’ha infusa anche in tutta la cultura locale, alla logica del cittadino. La Sicilia ha espresso grandi personaggi politici che hanno segnato la vita di tutto il Paese: uno per tutti Luigi Sturzo e la classe dirigente da lui creata, dal siciliano Alessi al trentino De Gasperi. Ma, dopo la guerra e con la scusa dell’autonomia, l’isola ha espresso una dirigenza pessima, con le sue pregevoli eccezioni, spesso legata alla mafia, la peggiore rappresentata da Ciancimino e altri come lui, l’altra clientelare e comunque spendacciona e incapace di serio governo. Anche se la politica ha prevalso in questa degenerazione, non è stata sola e ha contagiato ed è stata espressa da tutto il resto della regione, quella industriale, imprenditoriale, amministrativa, delle professioni ed oltre. Ora, almeno apparentemente e di fronte al fallimento annunciato (che sarà di certo, come sempre, evitato dallo Stato, pur esso davanti ad un futuro assai nero) qualcuno si muove, emerge la esigenza di una profonda ed operativa riflessione sul futuro di questa splendida e sciagurata regione. Intendiamoci, ora parliamo di Sicilia, ma non ignoriamo che essa, nella maggiore gravità della situazione, è quasi il paradigma, l’esemplificativo di notevole parte dell’Italia, certamente dell’incantevole sud del Paese. Non ho mai avuto simpatie leghiste ma, come molti altri al Nord del paese, ne posso comprendere le ragioni, e la giustezza dell’idea che alle autonomie regionali devono corrispondere i relativi impegni, e che la solidarietà nazionale deve corrispondere alla responsabilità delle sue componenti. Alla base del sistema democratico e dello Stato di diritto e vi fu il detto “no taxation without representation” (niente tasse senza rappresentanza politica) ma dopo alcuni secoli, ci pare più attuale affermare il rovescio ” no representation without taxation” se non si pagano le tasse non si ha diritto alla rappresentanza. Un tempo ormai lontano, avevo proposto (come avviene per il fallito, talvolta ingiustamente), di togliere il diritto di voto all’evasore fiscale. Ma come fare per ridurre la folle corsa alla spesa di regioni e non solo? Non possiamo abolirle, è troppo difficile, ma togliere i soldi, la possibilità di spesa, attuare rigidamente la responsabilità personale degli amministratori, far applicare le tassazioni locali : questo è possibile. E se la siringa di Palermo costa dieci volte di più di quella di Milano, lasciamo il giudizio ai cittadini di Palermo ma lasciamogli anche la spesa. La vera solidarietà non è solo la cura di un male ma fare in modo che ognuno capisca come bisogna curarlo. La democrazia dà il potere, con il voto, al popolo. I siciliani, e certo non solo loro, imparino ad usarlo, possibilmente a spese proprie.

Aspettando i tartari

Nel 1940, all’inizio della partecipazione italiana alla seconda guerra mondiale, in contrasto con il tumultuoso precipitare degli eventi, il grande Dino Buzzati pubblicava il suo capolavoro “Il deserto dei Tartari “, il romanzo della inutile attesa, del passare del tempo alla ricerca di un evento che non appare, della guardia verso un nemico che dovrebbe attaccare e consentirci una difesa, una vittoria che immaginiamo al più presto realizzabile ma che non viene mai.
Nella fortezza Bastiani, al confine con il deserto dei Tartari, vivono ufficiali e soldati, sempre nell’attesa di un evento prevedibile e ci passano la vita, mentre i comandi, il potere, sembrano ignorarne la inutilità, convinti che le regole stabilite siano da conservare per sempre. Il giovane tenente Dogo e entrato nella fortezza appena ventunenne, uscirà vecchio e malato, logorato dalla lunga attesa, emblema della vita stessa, del suo forse inutile trascorrere.
Nel tenente Dogo, nella sua lunga attesa degli eventi che avvengono e soprattutto che non avvengono, c’è un po’ la vita di ognuno di noi, delle sue speranze, attese, illusioni, e delusioni. Ognuno nel suo spazio, nella sua fortezza, di fronte ai propri Tartari, impossibili da sconfiggere perché non appaiono, forti e veri, di fronte a noi. I tartari sono anche i nostri sogni, ciò che vorremmo di fronte a noi per misurarci, nel combattimento che vorremmo a difesa delle nostre bandiere, dei nostri ideali, della nostra piccola o grande fortezza Bastiani.
Molti ignorano l’esistenza stessa della fortezza, di ogni fortezza che non sia la propria, delle fatiche che comporta, delle risorse che utilizza e che spreca. Non necessariamente ai limiti del deserto ma ovunque, dove si esercita la battaglia del vivere, del confronto con gli altri e della gestione in vario modo delle Polis, che è nostra ma anche di tutti , dei buoni e dei cattivi, dei nostri amici e dei Tartari.
Per anni ed anni ci si batte per ideali sempre lontani inconsapevoli che molto spesso i Tartari, invisibili e non definiti come quelli di Buzzati, non sono solo contro di noi ma in noi, tra i nostri, tra coloro che impegnano la nostra vita con promesse verosimili, con proposte allettanti, con nobili motivi di impegno. Ci nascondono molte verità: che l’avversario talvolta non è quello che ci indicano né come ci dicono, che nel nostro campo vi sono menzogne e traditori, che i veri capi sono altri rispetto a quelli che appaiono e con ben altri obiettivi.
Noi combattiamo la vita, aspettando eventi che non arrivano, e passiamo, come scriveva Michelet, davanti all’immobile tempo. Ognuno di noi, anch’io, a vent’anni prendeva posizione nella propria fortezza: l’ideale era politico, indicato da leaders prestigiosi, ostacolato da Tartari avversari. Bisognava salvare dal loro attacco, libertà e democrazia, governare con lungimiranza, col popolo e per il popolo, o con la metà di popolo che stava con noi. Serviva una azione per aiutare lo sviluppo del Paese, per aumentarne la libertà, il benessere, la qualità della vita. Ed estendere oltre, in spirito cristiano, le condizioni di crescita: ai paesi poveri, al sottosviluppo, ai sistemi antidemocratici e anti liberali. Nelle fortezze. c’erano molti giovani ufficiali, molti Dogo, impegnati in questa lunga guerra, ogni volta con battaglie diverse, spesso costretti a combattere in difesa più che all’attacco.
Quei giovani ventenni ora sono invecchiati, hanno le mostrine delle battaglie combattute, il ricordo del loro costo, talvolta delle gratificazioni, spesso del dolore delle ferite. Si rendono conto però che le più significative speranze non si sono attuate, che i grandi temi di libertà, democrazia, onestà, ideali, Stato efficiente e giusto, magistratura leale e pronta, dirigenza colta e preparata, verità nella comunicazione e tanto altro ancora, sono purtroppo ancora temi attuali, problemi irrisolti e sono ancora sul tavolo, davanti a noi.
Abbiamo visto grandi eventi dalle torri della nostra fortezza: dall’uomo sulla luna alla guerra fredda, dalla costruzione del muro di Berlino alla sua distruzione, dalle spesso inutili rivoluzioni alla assai incerta autonomia dei paesi coloniali ed anche lo sviluppo economico e le crisi del dopoguerra, il crollo dell’Urss, la fine della Jugoslavia, le nuove geografie, le torri gemelle. E le brigate rosse, l’omicidio di Aldo Moro, tangentopoli e tanto altro ancora.
Troppo tardi siamo arrivati a scoprire però che i Tartari erano tra di noi e per questo non li vedevamo giungere dal deserto. Erano i falsi profeti, i mai stanchi di ricchezza, i nemici delle riforme e anche i demagoghi delle riforme. Sembravano commilitoni ma combattevano contro gli ideali dei giovani di allora o li corrompevano col potere e modificavano il senso delle loro speranze.
Molti di loro, come Dogo, sono ormai anziani e malati e vedono sul tavolo delle proprie illusioni gli stessi problemi di cui si discuteva e ci si azzannava cinquant’ anni fa. Certo molte cose sono cambiate: i computer sono piccoli e veloci, le scope sono diventate elettriche: ma l’immondizia sembra aumentare e non vediamo capaci spazzini. Così Dogo, i molti Dogo che ci  avevano a lungo creduto, escono dalla fortezza, si allontanano dal fronte, dolorosamente, lasciando che altri ventenni si illudano ancora di difenderci dai Tartari e senza avere più il tempo e la forza di dire loro che i Tartari sono tra noi, forse inconsapevolmente siamo anche noi.

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Rieccolo

La meraviglia di molti commentatori ci meraviglia ancora di più. Chi conosce Berlusconi sa che non è uomo di resa, ed ha le risorse, finanziarie e di testa, per sostenere altre battaglie. Le sue precedenti dichiarazioni di abbandono, l’investitura di Alfano con la copertura del suo ruolo presidenziale, la disponibilità, ma condizionata e certo trattata, nei riguardi di Monti, e i suoi interventi, già ci dicevano che l’uomo non intendeva tornare nell’ombra, posto che per lui si possa parlare di ombra.
I sondaggi, certamente seri, della sondaggista Ghisleri, che sono il suo principale alimento, ora gli dicono che il Pdl è agli sgoccioli (tra il 10 e il 13%) e che la sua classe dirigente respinge anche i più affezionati tra i delusi della grande speranza. Ma, dicono anche che Berlusconi avrebbe ancora, su quell’elettorato, un suo personal appeal, un bacino elettorale che potrebbe dare un altro 10%. Ma ci vuole lui, fisicamente impegnato e presente. Una parte d’italiani sentirebbe ancora il fascino della sua parola, delle promesse, delle fantastiche illusioni.
“Berlusconi for ever”, come il titolo del film che la 7 ha riproposto per “celebrarne” il rientro. Montanelli, se fosse vivo, direbbe che le dichiarazioni fatte sull’abbandono della politica, sono state la sua ultima bugia. Noi, pensiamo che sia solo la più recente.
Berlusconi è un personaggio che unisce in sé tutti gli elementi per farsi amare e odiare: è guascone, simpatico, intelligente, vede le cose in grande, è ricchissimo e sa essere generoso, soprattutto è “il più grande piazzista del mondo”. (Montanelli), che sa vendere di tutto, ma soprattutto assai bene se stesso, il suo ruolo, le sue idee, i suoi prodotti.
Per questo un suo ritorno è considerato fondamentale da chi, senza di lui, non sopravvivrebbe a un confronto politico e da chi, con lui, riavrebbe contenuti (vecchi ma forse ancor validi), alla propria esistenza ed esigenza di alternativa.
Ma, Berlusconi vuole tornare a Palazzo Chigi? Siamo certi che considera questo evento, impossibile. L’uomo è abile, furbo, è un commerciante nato, sente bene gli umori della gente e sa che, anche cambiando la sua squadra, deve combattere contro un nemico difficile e complesso: la disillusione, basata su un  dejà vu di promesse non mantenute, di entusiasmi venuti meno, di belle idee restate tali, di patti firmati in tv e la rimasti. Il tutto, in una situazione di dramma politico, economico e sociale del Paese.
“Non è tutta colpa sua” dicono i suoi corifei”. No, ma in larga parte lo è, sua e dei suoi potenti consiglieri.
Proprio per questo viene inscenato un clamoroso rientro, ma dietro ad una strategia di attacco, c’è una tattica di difesa, di mantenimento del potere, non più per decidere, ma per condizionare le altrui decisioni.
Ecco perché non ci saranno vere riforme, né sulla legge elettorale, né sul finanziamento dei partiti, né sulla riduzione dei parlamentari e dei costi della politica. Sulla riduzione della spesa pubblica si lascerà Monti, con molte dichiarazioni di sostegno, da solo a scottarsi le mani.
Berlusconi ha paura che il Pdl affondi su un 10% che può risultare ininfluente. Gli serve un 25% per essere determinante, per tutelare i propri interessi politici e personali, per contare (come adesso) sulle scelte fondamentali, sulle nomine, sul potere.
In un paese dove la politica è stata ovunque sostituita dal potere, le idee dai commerci, il sociale dagli egoismi, gli ideali da false comunicazioni e mascherati interessi, quel che conta, e che rimane, è il potere, che diventa il garante del Dio denaro, per le oligarchie del potere stesso.
Berlusconi e i suoi più intimi, conoscono bene questi meccanismi, e sanno anche che non saranno i grilli parlanti a prevalere, che molti non voteranno, altri protesteranno con Grillo, ma la maggioranza si dividerà, rassegnata, alle situazioni che verranno da molti proposte, da Vendola a Storace. In questo stato di cose per il nostro Paese, il ritorno di Berlusconi non cambia granché, anche con minor consenso potrà conservargli ancora una bella fetta di potere, come del resto avverrà per gli altri partiti e partitelli. A meno che, provvidenzialmente, non sorga un altro leader, o un Monti più deciso a governare. Ma su quei fronti non vediamo granché: c’è solo molta nebbia.

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Napolitano: attenti che vi fregano ancora

Il presidente Napolitano ha scritto una lettera ai presidenti di Senato e Camera per ricordare loro, anche in vista delle prossime elezioni e nell’interesse generale di un Paese lontano e scandalizzato dalla politica e dalle sue istituzioni, l’urgenza di legiferare in materia di legge elettorale, di riforma del Parlamento, di finanziamento o meno dei partiti. Apriti o cielo di commenti e critiche: Napolitano abusa dei suoi poteri, non è materia di sua competenza, tocca alla politica fare queste scelte, al nostro autorevole Parlamento. Infatti Napolitano si è proprio rivolto ad esso, responsabilmente e correttamente, anche se qualche raffinato costituzionalista, in fil di diritto, potrebbe obiettare qualcosa.
Ma la costituzione formale, che è fondamentale, può e deve avere una gestione materiale capace di interpretare, senza modificarla, lo stato e le esigenze del Paese. È quello che avvenne con il defunto presidente Cossiga, che ben aveva capito lo stato della Nazione e, con interventi sulla classe politica che venivano definiti picconate, cercava di richiamare al dovere la politica stessa. Ciò prima di tangentopoli e della grande crisi, anche istituzionale, che ne derivò con il totale crollo di credibilità della politica e delle sue regole. Le conseguenze le paghiamo ancora oggi, dopo averle dimenticate per quasi vent’anni.
Cossiga fu accusato e fu promosso l’impeachment da parte del Partito comunista di Occhetto (e tutti gli altri D’Alema e Veltroni compresi) con la motivazione che “il presidente della Repubblica ha violato il dovere costituzionale della imparzialità ed ha teso ad estendere le proprie prerogative a danno di quelle di altri poteri costituzionali”. Erano i comunisti del dicembre 1991. Nel ‘92 il Paese era nei gorghi di tangentopoli ed era giunta la fine di quella classe politica stimolata e picconata da Cossiga che aveva in qualche modo previsto la situazione. Ora Napolitano, che da parlamentare comunista aveva votato la mozione di impeachment di Cossiga, è accusato di comportamenti analoghi.
Allora avrei votato a favore di Cossiga e così farei ora per Napolitano, che stimola il Parlamento, come quello di allora, ormai zoppo, e questo dotato pure di gente “non eletta” (grazie al porcellum) e altrettanto dotata di non pochi procedimenti giudiziari. Chiede loro di riformare una legge elettorale non amata certamente dal popolo ma solo dai capi dei partiti che fanno tutto il necessario per mantenerla in vigore e nominarsi il nuovo Parlamento. Magari con la reintroduzione delle preferenze, che privilegiano chi ha soldi e potere e sono state una delle componenti più forti della corruzione della prima Repubblica, soprattutto nella sua seconda fase, e del predominio dei partiti organizzati e finanziati da privati a tutela dei propri rilevanti interessi, da aziende pubbliche e direttamente dallo Stato. Allora come oggi, anche senza le appropriazioni del tesoriere sui soldi della defunta margherita e quelle familiari ed amicali di oro e diamanti di quella dirigenza leghista che ci doveva moralizzare.
I capi partito sono insensibili al quasi 40% di cittadini che vogliono disertare le urne perché ritengono inutile votare. Tanto, col 40% in meno, mandano ugualmente in Parlamento chi vogliono loro, in nome di una falsa quanto proclamata democrazia.
Napolitano scrive a nuora ( i Presidenti delle Camere) soprattutto perché suocera intenda (i cittadini elettori). È come se, fuori dalle regole del cerimoniale e degli obblighi istituzionali, il Presidente dicesse agli italiani di stare attenti, che li stanno turlupinando un’altra volta, che i padroni (anche economici) dei partiti puntano sulla scarsa memoria della gente, sul tempo che passa, sui terremoti che fanno pensare ad altro. Ma intanto il Paese affonda: nel territorio senza difese dalle distruzioni, negli immensi debiti fatti per demagogia e scambio elettorale, nella drammatica macchina succhia risorse dello Stato ed ancor più di regioni, province, comuni, enti vari; nella melma della burocrazia che tutto rallenta e proibisce.
Il presidente sembra dirci: attenti che arriveremo alle elezioni con il porcellum (con qualche modifica – trucco) che ci consentirà di rivedere al potere le verginelle più fedeli alle varie potenze dei capi, agli yes men, i Cicchitto, i Bondi, i Frattini oltre che i Verdini, i Brancher,i Penati e tanti altri conosciuti più dai magistrati che dagli elettori. I partiti avranno ancora i nostri soldi, forse un po’ di meno, ma sempre troppi e sprecati, i corrotti continueranno nel loro lucroso lavoro, giustificandolo con il meno ignobile nome di lobbisti. Attenti che vi imbrogliano ancora! Così sembra dire.
Ci viene però naturale obiettare al Presidente preoccupato: ma siamo sicuri che gli italiani, o gran parte di loro, non vogliano proprio questo?: che i più furbi prevalgano sugli ingenui, i forti sui deboli, i ricchi sui poveri e inevitabilmente anche i meno poveri sui più poveri. Come vediamo succedere anche nei piccoli paesi, nelle aziende, nella burocrazia, nella esperienza politica, economica, sociale, nella vita di tutti i giorni e a tutti i livelli, anche quelli che ci sembrano assai modesti. Il timore c’è anche se pensiamo, con dolore, che la voce di Napolitano, come a suo tempo quella di Cossiga e di altri, magari meno autorevoli, rimanga una “vox clamans in deserto”.

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Spending review e “benaltrismo”

Detto in inglese sembra meno duro e più elegante, ma potremmo, in buon italiano, chiamare tale operazione revisione della spesa pubblica, dove revisione significa soprattutto riduzione.
È un’operazione difficile, nella quale si unificano e si confondono le realtà del Paese, dei cittadini e della loro classe dirigente, dei loro rappresentanti sindacali e politici.
Siamo nel Paese che vive sui debiti, una montagna di debiti accumulati nel tempo (2000 miliardi di euro) e altri continui, persistenti, gravosi debiti per sopravvivere, per pagare stipendi e pensioni, per andare avanti quando per non indietreggiare.
Ogni sei mesi, più o meno, andiamo in piazza e vendiamo carta, promesse di pagamento, a creditori che -col passare del tempo- credono sempre meno (e vogliono sempre di più) nella nostra capacità di pagare.
Non basteranno a questi cattivoni, le assicurazioni verbali e ancor meno i discorsi sulla solidarietà tra paesi amici e alleati. Chi avrebbe voglia di lavorare per pagare i debiti altrui, i suoi lussi, i suoi sprechi, le sue follie, il malgoverno? Allora dobbiamo ricorrere, ma come? alla revisione della nostra spesa, a pagare i debiti che sono fermi da decenni, a ridurre le spese di una macchina pubblica che costa come quella della Svezia e ci da servizi come l’Egitto. E non è un problema di clima! È proprio qui che scopriamo, riveliamo a noi stessi, la nostra natura.
Critichiamo aspramente, e a ragione, la nostra dirigenza politica ma, come spesso avviene, essa altro non è che lo specchio della classe dirigente della popolazione, o viceversa. Il governo di emergenza ci pare subito cattivo, pessimista, catastrofico, socialmente brutale. Non lo diciamo tutti insieme, ma a gruppi, per categorie, per corporazioni.
Il corporativismo, che fa parte della nostra storia dall’anno 1000 in poi, riemerge.
Il fascismo lo aveva addirittura istituzionalizzato con la carta del lavoro del 1927, trasformando poi la Camera dei deputati, in Camera dei fasci e delle corporazioni. La democrazia post bellica lo ha utilizzato a fini di battaglia politica, coltivatori diretti con la Dc, agricoltori con Pli e destra, CGIL con i comunisti, e via dicendo.
Di fronte ai gravi problemi da esso stesso causati per l’intrinseca debolezza della buona politica, di fronte alla necessità d’intervento e al possibile crollo economico finanziario, il corporativismo si difende, dividendosi strumentalmente e proclamando l’alterità di ognuna delle sue parti.
L’argomento usato è ormai noto: si chiama, con un neologismo brutto ma efficace, il “benaltrismo”. Il governo propone la riduzione dei costi della politica? Ma c’è ben altro da fare rispondono politici e amministratori pubblici. Propone la riduzione ed eliminazione delle inutili province? Ma, c’è ben altro da fare prima di questo! Propone la riduzione della pletora. di dipendenti pubblici e di dirigenti? C’è ben altro rispondono i relativi sindacati.
Il benaltrismo serve per prendere tempo e non fare nulla o poco, per riprendere il solito gioco, e in tempi meno ostici. Non aboliamo le province, vediamo con calma, di ridurle. Le aumenteremo dopo, a bocce ferme, come già si è fatto. I tagli della spesa devono essere selettivi non lineari. Giusto ma entro quanti decenni potremmo licenziare i cattivi dirigenti, i sindaci spreconi, i politici presenti negli enti solo per assumere personale e intrallazzare?
Allora bisogna ricorrere ai tagli lineari: tu ministero, devi dimagrire del 20%: decidi tu cosa tagliare, cosa è meno essenziale,  meno utile. E i ministri, da tagliatori di teste, si trasformano in difensori di testoni, con la scusa del “servizio ai cittadini”. Con l’ovvio accordo dei sindacati, difensori di tutte le cause comodamente popolari, tanto sono pagate dalla collettività.
Il giudizio è ovviamente generalizzato: molti sindacalisti (come molti politici) sono galantuomini che soffrono della situazione e vorrebbero più serietà e meno demagogia, più lavoro e meno apparizioni in tv. Vale anche lì il detto “Senatores boni viri, Senatus mala bestia”.
Così si verifica la perfetta fusione tra il popolo dei beneficati a spese di tutti e della dirigenza sindacal politica che-in cambio di consenso glieli garantisce. Senza responsabilità sulle scelte.
Si sente la mancanza di un giudice terzo, di un controllore. Si cerca di intravvedere, dove sia finita la Corte dei Conti, perché non si controlla,con la responsabilità personale, chiunque maneggi denaro pubblico, direttamente o indirettamente.
E se servono nuove norme, poche ma, efficaci e generali, si facciano. Al posto di tante leggine particolari quanto poco utili. Sembra che, di fronte all’immenso debito pubblico, quasi non affrontabile, il Paese si trovi di fronte ad una grande stanchezza, una sorta di rifiuto, soprattutto in chi deve decidere e sostenere chi vorrebbe decidere. Una stanchezza grande come il debito, che reclama per entrambi, un solidale riposo, un prendere tempo, un attendere: sempre sperando nella fiducia dai creditori.

Il tramonto della Lega

Il congresso della Lega, il primo dopo 10 anni di “democrazia” leghista, ha incoronato Bobo Maroni come segretario politico, togliendo a Bossi il potere detenuto in modo monarchico fin dalle origini. I leghisti lo hanno definito come l’evento della rinascita, della ripartenza, della nuova Lega. È stato un congresso unanime, simile e al tempo difforme da quella assemblea che ha “eletto” Angelino Alfano segretario del Pdl.
Entrambi senza voti contrari, per acclamazione, con i padri fondatori consenzienti quanto poco convinti ma obbligati a quella scelta; entrambi colpiti da magistrati cattivi e comportamenti, i loro, inventati o esasperati dai soliti servizi segreti, anche se sembra, eccezionalmente, che questa volta la CIA non c’entri.
Entrambi sono ex ministri importanti uno alla Giustizia e l’altro agli Interni ed entrambi hanno l’arduo compito di ricostruire i propri partiti dalle macerie giudiziarie e politiche. Ma in entrambi i casi sembra essere stato celebrato più che altro un rito, non si capisce bene se battesimale o pressoché finale.
Il battesimo leghista eravamo abituati a vederlo con le vergini acque del Po, alle sue sorgenti, che divenivano sempre più inquinate lungo il percorso sempre più verso Venezia, dove all’arrivo l’insulto prevaleva sulla preghiera al dio celtico.
La cresima la vedevamo a Pontida dove i soldati padani celebravano le virtù guerresche (senza molto conoscerle) dei Comuni che combatterono il nemico Federico Barbarossa, dal quale ottennero dopo anni, l’autonomia interna delle città, quelle che avevano però giurato fedeltà nelle sue mani. Altro che separatismo.
Successivamente, garante l’amico dileggiato e tradito Silvio Berlusconi, ci fu il lungo periodo del potere romano, con ministri, sottosegretari, presidenti e consiglieri di enti, di RAI, di Finmeccanica, di autorità “indipendenti” e via andando.
Fu così che Roma ha ben digerito i leghisti e questi hanno ben digerito Roma. Talmente bene da diventare maestri del potere della capitale e dei suoi anche più nascosti segreti economici e burocratici.
Sempre però con i due volti della Lega, quello moderato ed istituzionale di pochi Maroniani e quello provocatorio dei Calderoni, di Rosi Mauro, e di tanti altri noti urlatori.
La fine della Lega delle origini si vedeva bene e già da tempo a Roma, dove l’occhio esperto dei circoli e dei salotti, era lieto di vedere la veloce romanizzazione dei barbari, che fossero “sognanti” o del “cerchio magico” non cambiava granché. In verità si vedeva bene anche a Milano, Venezia, nelle città padane dove sta al potere. Sarebbero andati avanti ancora un bel po’, senza novità e senza congressi anche se forse avremmo visto Tosi e Maroni espulsi dalla Lega e il cerchio magico sempre più imperante. Ma, non bisogna credere che il governo dei seguaci di Maroni e Tosi sia nella sostanza diverso, più leggero, più aperto al dialogo con le opposizioni, meno ossessivamente presente nei centri di potere. Cambia molto una ben finanziata comunicazione, e lo stile meno barbaro e già sembra quasi un miracolo.
Però è scoppiata, secondo Bossi per congiura, il caso Lega-Belsito, l’uso padronale del denaro pubblico, il familismo più esasperato, lo scandalo!
Erano quelli che ci insegnavano la virtù, il buon governo, che portavano la corda da impiccagione in Parlamento, che davano del ladro a tutti, a quelli veri ed agli onesti che sono comunque la maggioranza delle persone in Parlamento.
Così la Lega ha perso la sua credibilità, si è mostrata uguale e forse peggiore degli altri partiti, con una classe dirigente affarista e palancaia. La contraddizione tra gli eccessi del dire e del fare ha reso assai più grave tutta la vicenda.
Naturalmente non tutta la Lega è così, ma lo era quella che contava, che gestiva denari e potere, che decideva le candidature, i posti di governo e di sottogoverno centrali e periferici.
Il congresso che vuole rappresentare la rifondazione non ha superato il dualismo della leadership pur nell’unicità della candidatura. Nonostante l’impegno dei riformatori Il partito non può ritrovare una sua verginità, che era fittizia ma Che era forse la cosa più importante di cui si vantava. Infatti, i suoi obiettivi politici, federalismo incompiuto, regionalismo sempre più burocratico e centralista, mancato sviluppo delle piccole e medie imprese e dell’economia del Nord, ministeri anche a Monza e Parlamento itinerante tra ville venete o mantovane sono tutti falliti, taluni addirittura nel ridicolo, altre nello scandalo.
Maroni che è stato anche un buon ministro, ha ripreso la foga separatista, bellicosa, moralista per tenere insieme vecchi e nuovi leghisti. Ma chi lo ha visto con la scopa in mano non ha certo pensato che volesse ripulire il Paese ma la sua stessa casa. Molti, anche dei suoi, si chiedevano dove lui fosse allora, negli anni passati, ai tempi degli “errori”. Altri se potesse, pur con la massima buona volontà, come il biblico Giosuè che fermò il sole, essere lui a poter fermare, per la Lega, l’ineluttabile tramonto.

Dalla coppa alla pizza, allenarsi al futuro

I sogni sono finiti, ora ci risvegliamo alla realtà. Non senza gioia e delusione ed un timido senso di orgoglio. Almeno nel calcio abbiamo fatto bella figura, abbiamo ceduto, certo clamorosamente, ma di fronte ad una Spagna preparata, forte, che meritava di vincere. E ha vinto come nelle loro corride, hanno abbattuto un buon toro, caduto nell’arena, ma sempre degno di onore.
Questa gara europea ha assunto un significato più ampio, quasi di rivincita sugli insuccessi in altri campi ben più complessi e difficili, più seri di una partita di calcio. È  stata un po’ una terapia psicologica di massa, utile per ritrovare un po’ di identità che era in via di attenuazione, di speranza nonostante un futuro pieno di ombre e difficoltà, la sensazione di potercela fare, nonostante le nostre carenze e i nostri difetti, i nostri politici e i nostri sindacati, le nostre corporazioni e la nostra scarsa ed egoistica finanza. Ci siamo concessi qualche giorno di speranza, di illusione, di gioia e consolazione. Abbiamo anche sconfitto un bel po’, non del tutto, del nostro quasi inconsapevole razzismo, accettando finalmente l’italianità dello scorbutico ma bravissimo Balotelli, abbiamo riconosciuto nel presidente Monti un serio e solido difensore dell’economia italiana ed europea e lo abbiamo visto lontano da sudditanze ed ironie, rispettato come uomo e come leader. Non sono state cose da poco, anche per un paese gossiparo e criticone, diviso in tutto, come il nostro. Ora però dobbiamo tornare al reale quotidiano, ai sacrifici per breve tempo dimenticati, alle buone regole in disuso da oltre tre decenni, a non vivere sui debiti, a pagare le imposte, a colpire fiscalmente la ricchezza e a risparmiare la povertà, a tentare di diventare un paese serio, forse un po’ meno simpatico e godereccio ma serio.
Nel veloce risveglio dal sogno calcistico, qualcuno sussurra che non dobbiamo dimenticare di essere “mediterranei”, quasi un alibi per giustificare l’essere pasticcioni, un po’ irresponsabilmente egoisti, tattici e non strategici, più amanti di un mare riposante che non delle scalate sulle nostre pur alte montagne. I nordici sono più forti, decisi, precisi, capace di sacrificio e di senso dello Stato e del diritto. Il protestantesimo li ha forgiati meglio, li ha tenuti lontano dagli scandali e dagli impulsi di potere della millenaria curia vaticana, e dalle invasioni che hanno segnato la storia della nostra penisola, creando differenze, sofferenze, domini ed imposizioni, provenienti da nord e da sud.
Certo siamo mediterranei e non ce ne dispiace, ma dobbiamo guardare al brumoso Nord con attenzione e capacità di seguirne gli insegnamenti virtuosi. Salvo diventarne sempre più tributari.
In un mondo globalizzato non è consentito essere piccoli. L’Europa, più unita che mai, è indispensabile per tutti, anche per la più forte Germania, e non parliamo dei paesi più piccoli o deboli. Ma non si deve andare al traino dei paesi alleati, ricorrere ai loro prestiti, dipendere dai cosiddetti mercati. Dobbiamo comprendere la linea di sviluppo di tutta l’Europa e seguirne gli esempi virtuosi, come quello germanico, e portare l’Italia alla serietà della buona amministrazione, con sindacati come quelli tedeschi, capaci di tutela dei lavoratori e non solo predisposti a scioperi e al clamore delle dichiarazioni, senza assunzioni di responsabilità.
Dov’erano i sindacati italiani quando esplodeva il debito pubblico, quando hanno voluto le baby pensioni e spingevano la spesa dello Stato ed il gigantismo della pubblica amministrazione e la creazione, ad ogni piè sospinto, di “aziende” di Stato ( pure per fare i panettoni) e di “municipalizzate” fatte da comuni, province, regioni, per evitare le leggi sulla contabilità pubblica. Questo solo per fare un esempio significativo anche della forte analogia e similitudine tra sindacati e partiti. Con il giudizio che ne consegue.
Sappiamo bene cosa ci ritroviamo al risveglio dal pur breve sogno. Quale spirito abbia la squadra più o meno lo conosciamo, ma non chi sarà l’allenatore dopo Monti. O troveremo il modo, di fronte al promesso reingresso di Berlusconi, di tornare… alla cavalleria leggera, al campo facile da percorrere, ai sollazzi dell’elegante club ippico, che abbiamo spensieratamente se non frequentato almeno conosciuto, lontani da preoccupazioni e problemi, salvo forse per la presenza dei pericolosi magistrati nel nostro paese.
Se vogliamo partecipare e magari vincere al prossimo campionato, quello economico, civile, politico, ci aspetta un lungo e forte allenamento, con giudici severi, con sforzi fisici, con preparazione intellettuale e forti convinzioni. Sarà altrimenti impossibile togliersi di dosso il simbolismo “mediterraneo” di pizza e mozzarelle con la chitarra in mano.
Simpatica immagine vacanziera ma che non piacerà ai nostri figli e nipoti diseredati del proprio futuro.

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Quattro soldi ai partiti

Mi permetto, ovviamente autorizzato, di pubblicare una pagina del libro “Il bel Paese con brutti mali” ed. Acherdo, autore Pietro Di Muccio de Quattro.
Non per manie di antipolitica, ma per far conoscere meglio la vergognosa politica. E per riflettere, riflettere.


La Corte dei Conti ha calcolato che, dal 1994 al 2011, i partiti hanno ricevuto dallo Stato, cioè dai contribuenti, cioè dagl’Italiani e dagli stranieri che pagano le tasse, cioè da tutti noi, la bellezza di due miliardi e duecentocinquantatre milioni di euro.
Avete capito bene e provate a leggere il numero in cifre: 2.253.000.000,00. Poiché l’euro ha confuso il cervello della gente inducendo anche un effetto deflazionistico mentale, è bene sempre tradurre in lire le somme, per avere l’ordine di grandezza a cui siamo abituati da sempre, almeno noi nati molto prima della moneta europea. Ebbene il numero in questione è questo: 4.362.416.310.000, che in lettere suona quattromilatrecento-sessantadue miliardi e quattrocentosedici milioni e trecentodiecimila lire. Questi i soldi incassati. Quanto ai soldi spesi, la stessa Corte dei Conti ha stabilito che ammontano a cinquecentosettantanove milioni di euro, in cifra 579.000.000,00. Convertibile in lire 1.121.100.330.000: millecentoventunomiliardi centomilioni e trecentotrentamila lire. Teniamo per fermo, inoltre, che tali spese sono sicuramente gonfiate, come dimostra l’allegra contabilità venuta alla luce con le ultime vicende giudiziarie, dove risultano a carico del bilancio dei partiti il tornaconto dei sodali, le comodità familiari, gli arricchimenti personali. In buona sostanza, quando i bilanci scrivono cento, vuol dire che per le esigenze politiche hanno speso venticinque. Il resto è andato sappiamo dove. Tuttavia, per comodità di calcolo, fingiamo che tutti i 579 milioni di euro siano stati rigorosamente impiegati per le necessità istituzionali, e verifichiamo quanti soldi contanti, belli li¬quidi, sono rimasti, si fa per dire, nelle casse dei partiti viventi e defunti.
In euro: 2.253.000.000,00 meno 579.000.000,00 uguale 1.674.000.000,00. Un miliardo e seicentosettan-taquattro milioni di euro!
In lire: 4.362.416.310.000 meno 1.121.100.330.000 uguale 3.241.315.980.000. Tremiladuecento-quarantuno miliardi trecentoquindici milioni e novecentottantamila lire!
In qualunque valuta, al lordo e al netto, sono cifre che lasciano sgomenti. Com’è scomparso questo Nilo di denari? Da quale mare è stato inghiottito.
Quali terre ha fertilizzato? Il popolo italiano, se esistesse, dovrebbe ingiungere al Parlamento di astenersi dal legiferare finché un’inchiesta indipendente, effettuata con pieni poteri da un comitato ad hoc, presieduto dal presidente della Cassazione, con il presidente della Corte dei Conti per vice presidente, e composto da generali dei carabinieri e della finanza estratti a sorte, abbia accertato gli utilizzatori finali dell’incasso netto dei partiti e ne abbia ottenuto la restituzione per quanto possibile. In epoca di debiti, né i partiti, né le istituzioni, né gli individui, possono invocare l’oblio su questo autentico sacco dell’erario: chi ha avuto, deve restituire; chi ha dato, deve ricevere.

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Il pungitopo

Dopo la partita

I tedeschi, dopo la partita di calcio così emblematica e partecipata, sono un po’ avviliti. Sono bravi, disciplinati, obbedienti, produttivi, hanno un grande spirito nazionale (magari un po’ nazionalista), ci battono un po’ in tutto, ma non solo noi, anche i francesi, gli spagnoli, i greci, i polacchi, e via dicendo. Tutti gli riconoscono grande forza, Temendoli quando ne hanno troppa. Tutti si aspettavano una loro vittoria: anche nel calcio. Dimenticavano che gli italiani sono insuperabili nelle cose fatte con i piedi.

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Globalizzazione, mercati e democrazie

Il mondo sta vivendo una grande crisi economica, produttiva, culturale e di sopravvivenza. È una crisi che tende a durare, a non essere un intervallo tra momenti positivi, tra periodi di progresso e di crescita, non è una caduta, ma una discesa, una slavina lenta cui è difficile porre rimedio.
La globalizzazione è stata determinata dallo sviluppo tecnologico, soprattutto quello delle comunicazioni e delle decisioni, dalla velocità acquisita dai comportamenti e dai trasferimenti, in sostanza da una sorta di riduzione delle dimensioni del mondo stesso. La tecnologia sempre più avanzata ci consente di sfruttarne sempre più le risorse, di scavare sempre più in profondo, di svuotarlo delle fonti di energia, di renderlo apparentemente più produttivo, dove lo è; in realtà sempre più desertico, povero non solo di petrolio ma soprattutto di acqua e quindi di terre fertili.
Il piccolo mondo, ormai velocemente, sempre più velocemente, sfruttabile e con sempre minore disponibilità, va dunque salvaguardato per poterne salvare gli abitanti, cresciuti di numero in modo eccessivo nei paesi più poveri e di esigenze e sprechi in quelli più ricchi. In questa non troppo lenta rivoluzione globale vengono sconvolti poteri, istituzioni, regole tradizionali, dimensioni economiche, principi etici. Sta venendo meno il ruolo e il potere degli Stati, salvo quelli immensi o federali (Canada, Usa, Russia, Cina, India, Brasile) democratici o totalitari che siano: è una questione di dimensioni economiche, di bacini di consumo, di forza militare. A che servono da sole l’Italia, la Francia, la più forte Germania, il Belgio o la Spagna? A tutti questi si applica, se lasciati soli, la regola fisica dei mari: il pesce grosso si mangia i più piccoli, uno a uno.
Alla riduzione del mondo globale corrisponderà sempre più la riduzione del numero dei protagonisti, più grandi e più forti. E più pericolosi. Anche nell’economia sono i più grossi a determinare le scelte o le non scelte: le decisioni e le politiche. L’economia, non a caso, si trasforma sempre più in finanza e queste tende a comprarsi ciò che resta di Stati indebitati, spendaccioni, inconsapevoli del loro stesso destino. Travolgere, determinare, decidere la vita degli Stati con la forza di una finanza senza limiti o comunque immensa, significa decidere dei cittadini, del loro livello di vita, della loro povertà a favore di pochi privilegiati del potere finanziario.
Non potranno alla lunga essere i cittadini, neppure solo formalmente, a decidere sui loro destini. E sarà la fine della democrazia, utile ai popoli nonostante i suoi limiti e il suo cattivo uso. Il mondo ha bisogno di buon governo e ne ha uno pessimo, fatto di interessi egoistici, di rivalità stupide, di incomprensioni, di lotte tribali, religiose, razziali, culturali. L’ONU, che dovrebbe almeno in parte, governare le relazioni internazionali, i grandi problemi, i pericoli del mondo, è solo un tavolo da dibattiti, di confronti di tipo mediatico, resi inutili o utili dal potere dei più forti ed ai loro interessi economici e politici.
Le stragi di Gheddafi sono stragi, quelle del siriano Assad non lo sono, forse perché le prime sanno di petrolio.  C’è, a dominare il mondo, la grande economia e il suo inutile idolo, il mercato, risolutore apparente di tutto. Ad essere dominati ci sono i popoli sempre più defraudati di forza reale, da poteri più forti, per dimensione, per cinismo, per egoismo.
Non c’è la grande politica, non ci sono i  grandi leaders, le strategie capaci di fermare o frenare ingiustizie, disparità, crudeltà, accumulazioni indecenti. I comportamenti dei poteri sono determinati dai grandi finanzieri, dai gruppi globali (multinazionali), da Stati più forti, da speculatori canaglie e giù di li. Per guadagnare sempre di più, per avere sempre più un potere assolutamente incontrollabile, se non da poteri più forti, quelli degli Stati ora in larga misura, per la verità, governati da loro stessi. Per combattere questo stato di cose bisogna necessariamente pensare alla rivoluzione francese o a quella sovietica?
Il mondo naviga verso un pericoloso destino: eccesso di popolazione, scarsità di risorse, eccessi in aree parziali ma forti e d’immensi consumi, scarsità crescente di fonti di energia. C’è sempre più pericolosa da scarsità di acqua, inquinamento di quella che c’è, surriscaldamento del globo, desertificazione. I dirigenti del mondo pensano ad arricchirsi, a lottare per la prevalenza tra di loro, non si sforzano di pensare al futuro di tutti e che, quando la terra sarà invivibile, e non è pura fantasia, non serviranno più le loro ville, le navi da turismo miliardarie, le casseforti in forma delle banche di cui sono padroni.

Da Kohl alla Merkel

Tra poco l’Europa avrà la necessità di decisioni forti e permanenti. I leaders europei dovranno decidere cosa fare su due fronti apparentemente separati ma politicamente uniti: l’Unione Europea e la sua governance e l’euro. La crisi economica che stiamo vivendo in gran parte d’Europa è il simbolo della debolezza politica europea, del suo essere una operazione incompiuta sia per ragioni oggettive, difficoltà storiche, linguistiche, culturali, sia per la non sufficiente volontà politica e capacità dei suoi capi. L’euro non è l’Unione ma ne è il più significativo ed importante risultato, il primo grande, dopo il fallimento (sempre per la mano francese allora di De Gaulle) della Comunità Europea di difesa. Ma in mezzo ci sono stati eventi positivi, crescita di sensibilità pubblica, miglioramento di regole ed elaborazione di comuni anche se faticose volontà. E, anni fa, ci fu non solo il crollo del muro di Berlino ma l’unificazione della Germania. Come sarebbe andata senza una Unione europea solidale e sostenitrice di quello storico evento? Ed il macroscopico costo di quella operazione non è stato sostenuto, indirettamente ma proficuamente per la Germania, da tutta l’Europa? E non si stralciata quella immensa spesa dalle regole di bilancio europeo?. allora in Germania governava Helmut Kohl, il grande uomo politico che quel paese aveva espresso dopo il gigante Adenauer ed altri politici di altissimo livello da Brandt a Ehrardt.
L’Europa, dopo il disastro della guerra scatenata dalla Germania di Hitler, fu voluta da tre grandi leaders che volevano garantire al nostro continente un futuro di pace: l’italiano Alcide De Gasperi, i tedesco Konrad Adenauer, il francese Schumann. Ci riuscirono e fu un grande successo che si attenuò o valorizzò anche sulla base dei politici che li hanno seguiti. Erano effettivamente grandi politici, perché vedevano ampio e lontano, pensavano al futuro dei loro Paesi e del continente, capivano l’immenso valore della comunità basata sulla solidarietà e non sull’egoismo nazionale che era stato solo portatore di guerre, sapevano, per averlo vissuto, che i cittadini europei –milioni-  morti per causa della assurda guerra europea e mondiale, erano parte della stessa terra, cultura, storia. Guerreggiata in passato ma profondamente bisognosa di pace e crescita comune. Era l’Europa di Tommaso Moro ed Erasmo da Rotterdam, del monaco Lutero e di San Francesco, di Galileo e del polacco Copernico, delle conquiste democratiche del parlamento inglese e della rivoluzione francese, l’Europa grande erede dell’impero romano.
Grande storia e grandi politici. Ora la crisi europea, che è prima politica poi economica e finanziaria, è la crisi di una Europa divenuta, ad onta dell’allargamento, più piccina, più attenta alle nazionalità, senza una vera e autorevole visione internazionale, e purtroppo con uomini e donne aderenti alla stessa dimensione, cioè sostanzialmente piccini. Così, volendo dare dei volti a paesi e nazioni europei, fra tanti altri, sorge il confronto tra Kohl e la Merkel, tra due dimensioni politiche ed umane, tra due ipotesi diverse della tedesca weltanschauung, ovvero della visione del mondo, della capacità di vedersi in grado di partecipare al suo governo, di immaginare e lavorare per la sua prospettiva.
Un grande Paese deve esprimere una forte classe dirigente. La Germania c’è sempre riuscita anche se pur nel drammatico e funesto periodo nazista. Da Kohl, realizzatore della ritrovata unità tedesca, alla Merkel, governatrice intempestiva della difficoltà greche ed europee, da de Gaulle a Sarkozy, da Churchill a Cameron, da de Gasperi a Berlusconi. E via dicendo.
Cosa sta avvenendo in Europa? Non produciamo più classe dirigente e grandi leaders? Non ne abbiamo più bisogno? I paesi dell’Europa (e tralasciamo il resto del mondo) hanno bisogno soltanto di modesti sindaci, buoni amministratori del presente forse, ma scarsi politici per il futuro? O piuttosto sono i sistemi democratici tradizionali (in Italia di certo) a non funzionare più e quindi a non produrre uomini, idee, progetti, obiettivi per i nostri Paesi? O la cultura politica e civile, sorretta da ideali e convinzioni profonde, a difettare? Forse un confronto tra gli uomini di un tempo e quelli di oggi ci farà riflettere, pensare, immaginare. Doti queste ormai in palese disuso.